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Numero 10



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                                   Scritture post-contemporanee 



I nuovi mezzi di comunicazione hanno cambiato il nostro modo di scrivere. Siamo nell'era dei blog, delle chat, delle email, degli sms. Rapidità, contrazione, grande flusso e capacità di raggiungere un pubblico vasto. La scrittura digitale inteserca e influenza la scrittura narrativa più tradizionale? Dipende dai punti di vista...

di Briciola nel latte
redazione@sognoblu

Da ciò che si legge in questi ultimi tempi si può ritenere che la scrittura contemporanea sia divenuta contratta, breve, compatta sotto le spallate dalla tecnologia sempre più presente nelle nostre vite. Non sto parlando della letteratura-narrazione, anche se in questo primo decennio di secolo e in quello passato la scrittura si è asciugata attingendo all’essenziale, a volte fortemente prosciugata rispetto ai modelli precedenti. 

Parlo invece della scrittura-comunicazione, dei blog, delle chat, delle mail, ma anche degli sms e della pubblicità. Paradossalmente ora che ci si trova calati in un’era digitale, dove le tastiere e i monitor hanno preso il sopravvento sulle penne e sulla carta, si scrive molto di più. Ma lo scritto è, a ben vedere, costituito da una sottoframmentazione di micromessaggi con un linguaggio alterato sia nella forma (si pensi alle imperanti k o alle abbreviazioni da sms anche al di fuori dello specifico contesto della comunicazione telefonica) che nella sostanza. Sono in realtà conati di pensieri, una forte trasposizione del parlato nello scritto. Le mail, a ben vedere, non hanno neppure più una parvenza di lettera (tradizionalmente intesa) e forse non lo sono mai state, deprivate come sono di qualsivoglia formalismo. 

Non hanno un’intestazione, una struttura, una firma. È come se per un attimo il flusso del pensiero del destinante fosse emerso dalla sua mente e avesse preso forma di scrittura per poi essere rapidamente trasmessa (spesso senza neppure una banale rilettura). Si ha anzi l’inquietante sensazione che quasi non esista un ‘prima’ o un dopo il messaggio-mail; esiste il pensiero digitale in sé, autonomo e autoreferenziato. È emblematico che imperversi l’utilizzo della seconda persona, come se il digitale avesse creato un’unica indifferenziata comunità spersonalizzata, senza barriere e livelli di classe o cultura, in una sorta di appiattimento verso il basso. Mentre una volta la lettera era finanche un qualcosa di intimo, un ponte dialogico e relativamente stabile tra due persone, ora una mail è inviata a un occasionale destinatario, server o persona che sia, che esisterà nella nostra mente solo e fino a quando non si sarà ricevuta la risposta. 

Un tempo la contrazione del testo aveva una giustificazione per il costo elevato del collegamento internet o per l’esiguo spazio del display del cellulare, sicché la diffusione della banda larga e gli spazi sempre più ampi di espressione sul web, come i blog per esempio, avrebbero dovuto abbattere la pochezza espressiva, innalzare la forma a uno standard quanto meno medio, ma non è stato affatto così. Internet è divenuto il luogo della spontaneità espressiva, del diritto/libertà di scrivere di getto senza una progettazione linguistica anche minimale; l’importante è dire la propria anche se non c’è nulla da dire. È il trionfo dell’apparire digitando. Questo accade perché è il mezzo che condiziona il con-tenuto dove il singolo individuo, anche se abita in cima a una montagna o su uno scoglio in mezzo al mare, ha oggi una visibilità fino a una manciata di anni fa impensabile. Si può essere letti in tutto il mondo, in pochi attimi, senza filtri. Tutto insomma è più veloce e non solo per la penetrante pervasività del me-dium, ma anche per l’alta fruibilità dei contenuti.

 Mi metto al computer e posso venire in contatto in pochi minuti con una infinità di informazioni diverse, tra le più disparate (oltre che di origine e genuinità non verificata) saltando da un link a un altro, da un’immagine all’altra, da un argomento all’altro.
In questo frullatore di sintesi è caduta anche la pubblicità, l’atto comunicativo per eccellenza. Gli spot e i radiocomunicati sono diventati più brevi, più concentrati (si pensi ai caroselli degli anni Settanta che avevano una durata quintupla rispetto a quelli di oggi) mentre il lavoro a monte, lo studio di marketing, di account, di creatività si è fatto più complesso, più scientifico e persuasivo. L’aggancio prodotto-claim è racchiuso in poche parole scolpite in se stesse in una sorta di cortocircuito, a volte persino nella ovvietà del quotidiano che parla però direttamente all’emotività del target non per come la vita la sta vivendo, ma per come la vorrebbe vivere; il che abbassa l’autocritica e la soglia della sana diffidenza della gente, creando adesione e partecipazione istintiva. 

Non è un caso che, in questo lavorio di continua riduzione del messaggio, aumenti la veicolazione dei memi, di quelle unità informative minime cioè che si contagiano per imitazione da soggetto a soggetto, senza una ragione o un perché, fino a creare tormentoni, stratificazioni clandestine dei ‘sentito dire’ e finanche di pregiudizi sociali. Sono complici in questo fenomeno sociologico la televisione, i giornali che ‘tirano a semplificare’, a comunicare per frasi stantie mandando avanti ste-reotipi nuovi in un accavallarsi di neologismi che hanno la sola funzione di in-capsulare la notizia etichettandola, radicando concetti semplici, squadrati con l’accetta, ma digeribili e metabolizzabili. 

Le testate on-line dei più diffusi quotidiani, avvalendosi dell’ipertesto, acuiscono ancor più questa frammentazione del dato informativo. Poche parole insomma, ma che rimangano impresse, poco importando se poi si perde la dimensione dell’informazione, lo spessore culturale del fatto, le ragioni ultime dell’evento e le interrelazioni con gli antefatti. Tutte opportunità rinviate alla rivista specializzata o anche solo al settimanale preferito o al programma televisivo di approfondimento di tiratura e audience minori, quando raramente ciò avviene.

 Dunque sempre più si assiste allo scorrere della scrittura attuale su due binari paralleli: quello letterario, in evoluzione lenta, ma progressiva, e quello comunicativo, rapido e convulso, già nel futuro, in una dimensione appunto post-contemporanea.