Psicanalisi allo specchio


Luigi Turinese è uno psicanalista molto stimato nel suo campo. Si occupa anche di omeopatia e, instancabile, gestisce anche un bel blog. Qui ci racconta il mondo degli specchi, interiori ed esterni, in un viaggio affascinante che stimola ulteriori approfondimenti...

di Barbara Colocci


Lo specchio è un simbolo molto indagato dalla psicoanalisi. Il mito di Narciso ne rappresenta forse l'esempio più pregnante. Chi è Narciso, sotto il profilo psicologico?
Come ha spiegato esaurientemente Jacques Lacan, tra i sei e i diciotto mesi il bambino conquista l’identità attraverso quella che egli ha definito lo stadio dello specchio. Dapprima il bambino tenta di afferrare l’immagine che gli appare come se si trattasse di un oggetto reale, quindi comprende che si tratta di un’immagine; infine si rende conto che quella immagine è la sua: essa è appunto la pietra angolare dell’identità. Quando, nell’età adulta, l’individuo fa esperienza del rispecchiamento nell’altro da sé, sembra di avvertire un’eco della primitiva acquisizione dell’identità: è come se, di fronte all’altro che ci folgora – come nelle esperienze di innamoramento – si rivivesse lo stadio dello specchio. Le frasi che pronunciamo in quelle occasioni – “mi sembra di conoscerti da sempre”, “anch’io la penso allo stesso modo”, “siamo proprio uguali!” – rivelano la reminiscenza di quell’antica, primordiale scoperta. Il problema è che soltanto più tardi si riconosce che l’altro è appunto un altro da sé, dopo essersi vanamente illusi di aver ritrovato il proprio doppio: è la disillusione dell’idealizzazione romantica, a ben vedere la delusione che segue un’illusione. Come un’illusione ottica, sul piano psichico avviene prima o poi – se non siamo psicotici – il riconoscimento che l’immagine che lo specchio costituito dall’altro ci riflette non sono io: è la fine di quell’illusione narcisistica collettivamente incoraggiata, o quanto meno desiderata, che è il coup de foudre. Tornando al tema del rispecchiamento, e volendo cercare – come suggerisce di fare la Psicologia Archetipica di James Hillman – il mito soggiacente a tale esperienza, veniamo necessariamente condotti al mito di Narciso, il bellissimo adolescente che, sordo ai richiami d’amore, finisce per invaghirsi dell’immagine che lo specchio d’acqua gli rivela; e che non riconosce come sua. Come il bambino piccolissimo, dunque, Narciso oscilla tra la prima e la seconda fase dello stadio dello specchio. Si potrebbe dire che egli muoia sulla riva del corso d’acqua per non aver saputo accedere alla terza fase, che gli avrebbe consentito di riconoscere in quella immagine l’immagine di sé. In un certo senso, non è corretto dire che Narciso sia innamorato della sua immagine: infatti egli non è consapevole che si tratta della sua. Una versione del mito, anzi, racconta che nell’immagine egli crede di riconoscere la sorella morta, che gli era identica e che egli amava con tutto sé stesso.

Tutti gli uomini sono narcisisti? Come si conciliano narcisismo e introspezione?
Tema popolare e abusato, quello del narcisismo, definito da Freud come l’incapacità di riconoscere la separazione tra sé e gli oggetti del mondo, che sono per così dire incorporati – o in cui ci si specchia – senza riconoscere loro una realtà autonoma. Jung ne restringe l’ambito ai casi di autoerotismo patologico, “salvando” quella quota di narcisismo necessaria per raggiungere delle mete personali e che coincide con un certo grado di introversione. Un narcisismo “normale” consente di formare una identità solida e ritorna utile in certi snodi dello sviluppo psicologico, come per esempio nell’adolescenza. L’importante è mantenere una buona capacità empatica, la preoccupazione per le esigenze dell’altro, l’interesse per le idee altrui, la capacità di tollerare l’ambivalenza nei rapporti affettivi. Viceversa, si apre lo scenario del disturbo narcisistico di personalità, in cui un ideale dell’io troppo elevato condiziona un profondo egoismo e un’incolmabile distanza emotiva priva di ogni capacità empatica: l’altro esiste soltanto come oggetto “predabile”. Un ottimo esempio letterario di questo tipo si può riscontrare nel personaggio di Philip, deuteragonista del bellissimo romanzo La cura Schopenhauer, di Irvin Yalom, non a caso uno psicoterapeuta, in particolare uno dei massimi esperti mondiali di terapia di gruppo. A questo grado di narcisismo, potremmo dire, è possibile soltanto una pseudointrospezione; laddove una introspezione fertile si realizza soltanto in controluce con l’attitudine a entrare in relazione. Per concludere: una capacità di rispecchiamento è necessaria a far da “detonatore” agli incontri emotivamente coinvolgenti ma va in un certo qual modo superata a favore del riconoscimento che l’altro ha una vita separata dalla nostra. Altrimenti il rischio è di annullare l’altro oppure – come ha impareggiabilmente mostrato Woody Allen in quel capolavoro che è Zelig (1983) – aderire all’altro fino a veder scomparire la propria identità.

Lei è appassionato di Hillman, per il quale l'inconscio non conosce passato e futuro ma una sorta di eterno presente.
Questo fatto rappresenta un impedimento per l'evoluzione interiore?
In effetti, l’inconscio è atemporale, a prescindere dalla scuola psicoanalitica che lo prende in esame. Certo, nella prospettiva junghiana – e ancor più in quella hillmaniana, che radicalizza il richiamo all’inconscio collettivo, sede degli archetipi – la descrizione di un mundus archetypalis comporta la a-storicità dei suoi contenuti. Questo fatto, tuttavia, non è in contraddizione con l’evoluzione del processo individuativo, che si declina secondo la dotazione tipologica individuale e punta alla realizzazione dell’essenza di ogni singola persona. Per dirla con Nietzsche, l’individuo diviene ciò che è. Per citare Jung: “In ultima analisi, noi contiamo qualcosa soltanto in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la nostra vita è sprecata”.

Noi ci guardiamo allo specchio. Come facciamo invece a specchiarci dentro?
Potrei azzardare che sia nevrotico tanto specchiarsi letteralmente, alla ricerca di una irrealizzabile perfezione estetica, quanto specchiarsi dentro. Che cosa vuol dire, infatti, specchiarsi dentro? Spesso proprio approfondire l’attitudine narcisistica mascherandola con la copertura dell’introspezione. La stessa psicoanalisi classica, con la sua enfasi sul bambino interiore, sulle sfumature del sentire, sul transfert e sul controtransfert, rischia di produrre un soggettivismo narcisistico. Soltanto la relazione consente di porre una dialettica tra “dentro” e “fuori”: due metafore dell’Essere. Nella Philocalìa, una raccolta dei detti dei Padri del deserto, viene detto: “Se sei immerso in preghiera e un fratello bussa alla tua porta, lascia la preghiera e preparagli un tè”.

Secondo la psicanalisi gli altri diventano uno specchio che riflette le nostre proiezioni. Come funziona questo meccanismo? Che cosa comporta?
L’incontro con l’altro consente una conoscenza approfondita di me e delle mie istanze sconosciute – inconsce – proprio in quanto schermo su cui proietto ciò che ancora mi è ignoto. Si può vedere questo meccanismo all’opera nelle attrazioni emotive costituite dall’innamoramento o dalla fascinazione intellettuale. Dovremmo ringraziare per questo ogni seduttore/seduttrice… D’altra parte, se prendiamo sul serio l’ingiunzione evangelica “ama il prossimo tuo come te stesso”, troviamo la quadratura del cerchio: amare sé stessi (narcisismo “sano”) per poter amare l’altro (amore “maturo”). Con linguaggio meno poetico ma proveniente dalla letteratura psicoanalitica, Otto Fenichel esprime un concetto analogo quando scrive: “Si può parlare di amore soltanto quando è impossibile la propria soddisfazione senza soddisfare anche l’oggetto”.

Se il mondo è uno specchio, com'è - secondo lei - l'uomo contemporaneo? Quali drammi attraversa?
Uno dei maggiori problemi dell’uomo contemporaneo – non abbiamo spazio per analizzarli tutti… – è indagabile proprio a partire dalle note precedenti sul narcisismo. Se infatti il narcisismo consiste nella “sottrazione di libido agli oggetti” (Freud, 1922), questi rimangono per così dire “disinvestiti”. Il dilagare del brutto – nelle sue declinazioni di bruttezza estetica ma soprattutto di bruttezza morale – ha una radice importante in questa che nasce come patologia narcisistica e che una psicoanalisi attenta esclusivamente al cosiddetto “mondo interno” non può scardinare. Su questi temi, proprio James Hillman ha indagato a fondo, a partire da un intervento congressuale del 1988, tenuto a Roma all’Accademia dei Lincei, che si intitolava significativamente “Dallo specchio alla finestra: curare il narcisismo della psicoanalisi”; in esso lo studioso di Atlantic City accusava la psicoanalisi di aver trascurato il mondo, inseguendo soggettivismi che hanno tralasciato ogni cura per l’Anima Mundi. Nel 2004, in un libro curato da me e da Riccardo Mondo e che si intitola “Caro Hillman… Venticinque scambi epistolari con James Hillman” (Bollati Boringhieri), commentando questo episodio centrale della biografia intellettuale hillmaniana scrivevamo (p. 25): “E ci piace immaginare, caro James, che qualche giorno dopo la relazione dei Lincei Lei sia andato alla finestra del Suo studio analitico, abbia guardato il mondo e, abbagliato da questa visione, sia sceso per strada, lì rimanendo”. Ecco: una possibile cura del narcisismo potrebbe essere rappresentata dal restituire libido agli oggetti: in altri termini, l’invito è a volgere l’attenzione al mondo, per poter infine esclamare, come Totò-marionetta nell’ultima scena del poetico film di Pasolini Che cosa sono le nuvole (1968): “Ah, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!”.