Quel che resta dei morti


Nasciamo, viviamo, moriamo. E una lapide diventa a volte l'occasione per ricordare vite di altri che abbiamo appena sfiorato ma che si incidono dentro di noi. Fotografie, lumini e fiori servono solo a chi resta, testimonianza vivente di chi non c'è più.

di Giulio Crotti


Io non credo in Dio. 
E nemmeno alla vita oltre la morte. 
Si nasce, si vive e si muore. 
Punto. 
Quello che accade nel frattempo è perlopiù regolato dal caso. 
Il ruolo che possiamo giocare è minimo: un po’ di più se si nasce con un certo qual talento o nell’ambiente giusto; praticamente nullo se si ha la pessima idea di venire al mondo nel paese sbagliato. 
A volte basta il quartiere sbagliato.
Non credo a una giustizia ultraterrena, ovviamente. 
E credo anche meno a quella terrena: un’invenzione dei potenti di ogni epoca e latitudine per sancire e tutelare i propri interessi a discapito di una massa crescente di deboli, condannati per sovrapprezzo a credere di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Questo fa di me un nichilista? 
Non lo so. 
Anzi, non lo credo. 
In realtà credo in un sacco di cose, di quelle che forse farebbero dire a qualcuno che presenziasse al mio elogio funebre "Era un buon diavolo, non credeva in Dio ma non gli mancavano sani principi".
Credo nell’amore (troppo facile, lo so). 
Non solo quello per una persona o per più persone o addirittura per l’umanità in generale. 
Ma anche nell’amore per quello che si fa. 
Ho sempre ammirato e sì, invidiato, quelli che fanno qualcosa, persino il proprio lavoro in una sorta di estasi, come sospesi in una dimensione personale e atemporale. 
Quelli, per intenderci, che si scordano di pranzare, presi come sono dal loro impeto creativo.
Personalmente, non ricordo che mi sia mai accaduto. 
Voglio dire, dimenticarmi di mangiare. 
Questo può voler dire che non c’è nulla che mi appassioni. 
Il che è abbastanza triste. 
O forse che non sono mai riuscito a fare nulla che mi appassioni veramente. 
Il che è solo un po’ meno triste.
O forse, chissà, il buon cibo è un’altra delle cose in cui credo. 
Deve essere così.
E comunque, che cavolo, tutto ciò non mi impedisce di credere.

A questo punto salterò tutta la parte, prevedibile, sulla bellezza, l’amicizia, la fratellanza, la tolleranza e bla bla bla… 
Tutto molto nobile ma anche un po’ scontato. 

Voglio invece parlare di un'altra cosa in cui credo.
Io credo nei morti. 
Intendiamoci, niente a che vedere col culto dei morti propriamente detto. 
Del resto, sulla vita oltre la morte mi sono già espresso. 
No, quello a cui credo è il loro muto insegnamento.
Li vedo, nelle loro foto sulle lapidi, al cimitero. 
Ognuno di loro ha una storia. 
Qualcuna la conosco. 
Di altre conosco qualche dettaglio. 
Di altre ancora non so nulla. 
E allora provo a immaginarmele. 

Cerco di carpire qualcosa dai loro visi, dai sorrisi un po’ forzati delle foto tessera, testimonianza di un’ormai lontana epoca pre-digitale. 
E da quelli più spontanei delle foto "moderne". 
Che di solito sono le più crudeli perché ce li mostrano in momenti di serenità quando non di allegria, magari con la mano che stringe un boccale di birra o mentre accarezzano il loro cane. 
Crudeli perché ci mette tristezza sapere che la morte li ha colti poco dopo quel momento. 
Che rimane così sospeso, ingiustamente investito di un significato inimmaginabile, del quale noi siamo indegni testimoni.
E ci fa sentire un po’ in colpa. 
Perché noi invece potremo tornare a casa e accarezzare il nostro cane o andare al pub e bere con gli amici. 
E potremo farlo ancora e ancora e ancora una volta.
E soprattutto potremo continuare a vivere tutti quei momenti tra un bicchiere e l’altro, tra una carezza e l’altra, inconsapevoli della fortuna di essere vivi e incuranti della sottile differenza tra il continuare a essere e il non essere più.

Le storie più tristi sono quelle dei più giovani. 
Di chi se n’è andato presto. 
Di chi aveva ancora tante cose da fare e da dire. 
Di chi proprio non se l’aspettava.

E.P. 1970 - 1986 recita l’incisione cui per la prima volta presto attenzione. 
Ricordo che allora, in quei suoi inconsapevoli ultimi mesi di vita, vedevo spesso in giro questa ragazzina. 
Stranamente sempre da sola, sicché mi ero fatto l‘idea che fosse più matura delle sue compagne e quindi trovasse infantili i loro giochi e i loro discorsi. 
Questo avrebbe almeno in parte spiegato il suo bel viso perennemente imbronciato, del resto tipico delle ragazze carine e consapevoli. 
Non ricordo come si vestisse, ma un particolare mi è rimasto impresso: una delle sue spalle, lasciata scoperta dalla maglietta, o dal vestito che fosse, e dalla quale si scostava con un unico rapido movimento del capo i lunghi capelli neri. 
La trovavo attraente. 
Ma questo non è un ricordo. 
In realtà è una cosa di cui mi rendo conto solo ora. 
Allora, avevo poco più di vent’anni e una quindicenne era decisamente off limits. 
Ammettere di provare quella sensazione avrebbe comportato un turbamento interiore con il quale, evidentemente, il mio super-io ha ritenuto opportuno evitare di convivere.

….

Era autunno. 
Tutta la famiglia (padre, madre e una sorella più piccola) fece un abbondante pranzo a base di funghi, raccolti una settimana prima da un amico di famiglia. 
Una persona fidata, dissero, un esperto micologo. 
E del resto le grosse teste dei porcini che ancora dopo la cottura facevano bella mostra di sé nella pentola, e anche più il loro inconfondibile sapore, rassicurarono dapprima e deliziarono poi i commensali. 
Quello che non sapevano era che il giorno della raccolta, una domenica, la moglie dell’esperto micologo, tormentata da una delle sue frequenti e martellanti emicranie, aveva pregato il marito di portare con sé il figlio di 5 anni, di cui davvero non poteva sopportare, non quel giorno almeno, la vivacità. 
L’esperto non poté rifiutare, e per non subire a sua volta l’esuberanza del bambino pensò bene di tenerlo occupato dandogli una borsa in cui avrebbe potuto fare la sua piccola personale raccolta. 
E così fece, senza darsi pena di insegnargli a riconoscere i diversi tipi di funghi "è ancora troppo piccolo!" ma avendo cura, non visto, di buttare poi tutto nella spazzatura. 
E non potendo umanamente prevedere che il figlio avrebbe di tanto in tanto inserito, per sbaglio o per gioco, e a sua volta non visto, qualcuno dei suoi trofei nella borsa del papà. 
Poi, a casa, l’imprevisto invito a pranzo della suocera: la classica offerta che non si può rifiutare, peraltro caldeggiata dalla moglie, ben felice di non dover cucinare. 
Il giorno a seguire, per un motivo o per l’altro, fu impossibile metter mano ai funghi e, insomma, alla fine l’intero raccolto fu regalato alla famiglia di E.P., i cui membri, tutti indistintamente, ne erano ghiottissimi.

I primi sintomi giunsero dopo circa sei ore e colpirono per prima la figlia minore. 
Lì per lì si pensò a un’indigestione, ma quando anche tutti gli altri cominciarono a manifestare lo stesso malessere, per il padre fu chiaro di che si trattava, e chiamò un’ambulanza. 
In ospedale, portarono subito la piccola in terapia intensiva. 
La mattina dopo fu la volta degli altri. 
L’intossicazione era stata massiccia e il rischio di danneggiamento epatico molto serio. 
Il fatto fu ampiamente trattato dalla stampa locale e persino dal TG3 regione, e in paese fu l’argomento principale di discussione. 
Poi, il quarto giorno, il padre cominciò a reagire positivamente alle cure e a giustificare un certo ottimismo. 
Il resto della famiglia continuò a tenere in apprensione i medici finché, il quinto giorno, E.P. fu dichiarata fuori pericolo, seguita di lì a poco dalla sorellina e dalla madre.
Rimasero in ospedale altri due giorni, sotto osservazione, e il settimo giorno l’intera famiglia venne dimessa.

Ben presto tutto tornò alla normalità. 
A parte il fatto che, comprensibilmente, i funghi furono banditi dalla dieta familiare. 
Passò l’autunno e poi anche l’inverno e la primavera e infine arrivò la maledetta estate. 
E quel terribile giorno di luglio in cui E.P., come tante altre volte, prese il suo Ciao Piaggio (un must tra gli adolescenti di allora) per recarsi, sola, all’IPER di Brembate. 
A comprarsi un profumo, disse alla madre. 
Che le raccomandò prudenza in quella maniera automatica che hanno le mamme, che ti dicono "sta attenta!" così come un’amica ti dice "a domani!" o certi anziani si dicono "in gamba, eh!".
E che per gli anni a venire si sarebbe interrogata più e più volte sul perché il suo istinto di mamma non l’avesse avvisata del pericolo: perché il suo cuore non aveva preso a martellarle nel petto facendole pulsare le vene delle tempie come quando il marito in auto azzardava un sorpasso? 
È così che dovrebbe funzionare, pensava. 
Così l’avrebbe salvata. 
L’avrebbe convinta a rimandare. 
O a non andare del tutto, ché il profumo si può comprare anche dal tabaccaio in paese. 
Invece niente. 
Il suo corpo non le mandò nessun segnale. 
Nulla di nulla. 
Così ora, al dolore univa un forte senso di inadeguatezza prima ancora che di colpa. 
Per non aver saputo prevedere che lungo il viale delle industrie, una brutta e trafficata strada provinciale praticamente priva di banchina, uno dei tanti TIR diretti al casello di Capriate l’avrebbe fatta sbandare prima, cadere poi e infine l’avrebbe schiacciata con le ruote posteriori, uccidendola. Tutto in pochi secondi. 
Il medico di guardia del pronto soccorso era lo stesso che meno di un anno prima aveva accolto l’intera famiglia intossicata, ma lì per lì non la riconobbe. 
E del resto non poté fare altro che constatarne il decesso, cosa fin troppo chiara anche ai volontari dell’ambulanza. 
Le avevano attaccato una flebo ed erano giunti in ospedale a sirene spiegate più che altro per il rispetto che si deve a chi sta morendo. 
E poi si sa, spetta al medico dichiarare la morte.

Ora sono passati 23 anni. 
Suo padre è a pochi metri da me, davanti alla sua foto (una foto in bianco e nero che non le rende per nulla giustizia). 
La disperazione dei primi tempi ha ceduto il posto a una tristezza più composta ma gli ha lasciato dei segni visibili. 
Rughe profonde gli solcano le guance. 
Come scavate dalle lacrime di dolore che ha versato per la figlia adorata. 
Sono le sue stimmate, la sua condanna a ricordare. 
La pena che la vita infligge a chi sopravvive ai propri figli.