Vicoli nella memoria

Un viaggio nella ex-Jugoslavia diventa il luogo di un ricordo che mescola sfumature e suggestioni alla cronaca di quanto vissuto. Dubrovnik finisce per coincidere con il tempo delle promesse nell'entusiasmo della gioventù...


di Orietta Losa


Esistono luoghi dove si possono lasciare pezzi di anima? 
Trascorsi oltre un mese, nel 1984 nella ex Jugoslavia e fu l’estate più bella della mia vita fin lì. Sarebbero poi seguiti anni piuttosto bui e difficili. 
Ventidue anni è l’età della passione dolce, della scoperta dell’amore diverso della “cotta” e di una femminilità immatura e fresca ma delicata e gioiosa.
Il filtro attraverso il quale passano le emozioni, situato tra la pancia e la testa, è ancora a maglie larghe; l’esperienza del disincanto che interpone una membrana, un diaframma denso tra realtà e sogno, arriva dopo, tra le braccia del Tempo a passo di danza della Vita.
Ciò che si percepisce come eterno a quell’età, spesso è solo un istante, effimero quanto la luce di una stella cadente.

Tornai in quei luoghi nel 1990, sei anni dopo, in un momento molto differente: su di me era passato un vento efferato, un tornado di dolore e ne portavo i segni e tutta l’amarezza che resta “dopo” il dolore, ma anche “prima” dell’accettazione e della riposta della vita alla Vita. 
Ma questa è un’altra storia. 
Fu nell’ottantaquattro che lasciai alcuni pezzetti di me, incastrati tra i pini marittimi e gli ulivi, tra la roccia e il mare per ritrovarli solo adesso. 
Intatti. 

Il Paese è cambiato; ha vissuto la guerra e ha ritrovato la pace; la volontà di rinverdire sopra i cocci di un passato difficile di errori e orrori, sta cancellando in fretta le ferite e sta voltando velocemente più di una pagina del libro della propria Storia.

Ma ci sono cose che rimangono uguali, sotto la guerra, sotto la pace, sotto lo stesso cielo padre delle stesse stelle, testimoni silenziose, solo adesso meno brillanti di allora, date le luci di città e porti.
Non sono cambiati gli ulivi, che ora come allora sembrano incoraggiare a resistere alle fatiche e al dolore attraverso le rughe dei loro fusti, monumenti viventi di saggezza e simboli di tenacia.
Non sono cambiati i pini marittimi né la loro abitudine a protendersi verso il mare, replicandone quasi la direzione, nel tentativo di divenire una linea parallela all’orizzonte, tra il blu dell’acqua e il celeste del cielo, a far da righello al sole, quando, visto al tramonto da alcune prospettive, pare una nota sul pentagramma così tracciato.
Non è cambiato il canto delle cicale; quei piccoli esseri, a metà tra un insetto e una cassa di risonanza, accompagnano le passeggiate nelle pinete, tra i grandi pini e quelli che invece sono poco più di un pinolo cascato in un cucchiaino di terra, tra cespugli di mirto e agavi gigantesche, cactus e corbezzoli. 

Osservo il paesaggio da una strada che domina la scogliera; una strada nuova, con un ponte moderno sopra le rocce e, sotto di me si stende lei, Dubrovnik, l’antica Ragusa, città fortezza protetta dalle sue mura e da un San Biagio, incollato alla porta principale che tiene la città tra le mani. 
Protetta per secoli dai ponti levatoi, dagli enormi portoni e dalle fortezze.

La prima volta, dopo allora, la vedo arrivando dal mare: la barca si avvicina portando, insieme a me, il timore che sento dentro, che altro non è che la paura di trovarvi troppe ferite e offese irreparabili.
Entro dalla grande porta e mentre m’incammino verso La Placa vedo una ragazza bionda, con le gambe abbronzate e i capelli lunghi; una figura appena abbozzata, quasi trasparente eppure nitida mi viene incontro. 
La raggiungo e lei ed io ci mescoliamo. 
Camminiamo insieme ed io torno in possesso di tutte quelle cose lasciate allora. 

Mentre mi stupisco io... riconosco. 
E, mentre riconosco, mi rendo conto di essere entrata in una sorta di macchina del tempo dove man mano che avanzo per quelle mura vengo investita non tanto da ricordi quanto da sensazioni: sono odori, sono sapori, sono emozioni. 
È una specie di alchimia; io e la ragazza con i lunghi capelli biondi ci mescoliamo, come vino nell’acqua e guardiamo con quattro occhi, sentiamo con due nasi, tocchiamo con venti dita.
Lei, giovane, fresca, con la consapevolezza di adesso, ed io, una donna con la freschezza di allora. È una magia. 
E alcune cose “mie” rimaste là tornano a casa, dentro di me, fresche, immutate, perfettamente conservate. 
Anche il suono di questa lingua, groviglio di consonanti senza la compassione di troppe vocali, ha catturato e tenuto intrappolato per tutti questi anni qualche mio respiro, tra i suoi angoli acuti qualche lontano discorso che credevo dimenticato, perduto. 
E tutto mi viene reso, dall’udire quei suoni che muoiono quasi tutti in "ticipi, vtat, sncici …" 

Ogni tanto la voce del mio compagno mi distoglie da questo tempo ibrido dentro il quale respiro la netta sensazione che non c’è Tempo, che il Passato non è mai davvero passato né può esserlo mai finché lo si può ripossedere e rivisitare. 
Ma poi mi ci rituffo, incapace di essere altrove.
È forse in questi luoghi che si può trovare (o ri-trovare) persino il futuro?
Lo Spazio-Tempo si annulla e chissà che tra questi isolotti, tra il cristallo del mare e gli scogli, non ci sia anche il mio futuro. 
Lo sa forse il minuscolo granchio che scala con apparente fatica ciò che pare essere per lui un'immensa montagna, ma che sono gli argini di un’increspatura di scoglio grande quanto una moneta.
Proprio qui, tra case di pietra rivestite da tripudi di buganvillee, tra piante di capperi che miracolosamente si sviluppano in minuscole crepe, che il pensiero sprofonda nella storia di quel luogo e nella mia, forse si nasconde il mio futuro e mi sta osservando, rispettando l’attesa che deve.

È il crepuscolo quando mi allontano: rientro a Cavtat promettendo a Dubrovnik di tornare di sera. 
Mentre la barca scivola sul mare piango tutte le mie lacrime; il mio compagno, silenzioso, mi stringe la mano e mi avvolge un foulard al collo, c’è vento.
Gli sono grata di ogni suo silenzio, e della sensibilità che sa comprendere sempre quando il mio, di silenzio, è soltanto mio.
Ripenso alla frase incisa sul muro di una delle fortezze della città: "Non bene pro toto libertas venditur auro" (La libertà non è acquistabile ad alcun prezzo). 
Niente è più vero di questo.

A Cavtat è ora di cena; i ristorantini sul porto ben curati e freschi di tovaglie e di fiori offrono ostriche, aragoste, meravigliosi piatti di pesce ben cucinato, con gentilezza autentica e sorrisi aperti. 
Chiedo un Cevapcici: è così che deve essere.

Ci torno, a Dubrovnik. 
Di sera, come promesso. 
La città, un dedalo di vicoli di pietra che si arrampica fino alle mura, mai calpestato dalle auto, mi accoglie di nuovo: non vestita a sera, ma come un utero dorato.
La luce giallognola cola dai lampioni e si spalma sul pavimento di pietra de La Placa, la strada principale che taglia quel groviglio di scale e pianerottoli che sono le “uliche” (strade); il pavimento è lucido e risplende.

Io cammino scivolando per alcuni tratti sulle scarpette a ballerina, un po’ come fanno le bambine. 
Del resto procedo (ancora) con la ragazza bionda sovrapposta a me: teniamo (di nuovo) il passo insieme e mentre guardo un vecchio orologio esposto in una galleria, il mio pensiero va a qualcuno che appartiene al tempo che si chiama “adesso” e sorrido, perché anche quello, di Tempo, è poco convenzionale e ha un battito che non sa rispettare alcun orologio. 

Mentre scatto fotografie all’antico orologio, avverto la precisa sensazione che tornerò di nuovo: l’avverto sulla pelle e forse la ragazza dai lunghi capelli biondi lo sa già.
Di nuovo la memoria ricomincia a giocare, rimbalzando tra passato, presente e futuro, di sicuro divertendosi un mondo perché essa non appartiene ad alcun Tempo bensì ai sensi.