Maleducazione stradale

In queste giornate umide, accaldate, ti accorgi di come le città siano impossibili.
Le strade diventano ricettacoli di nevrosi appiccicose che ti restano addosso fino alla sera, fino a quando l’acqua della doccia non lava via ogni tensione.
E ti domandi perché l’uomo si crede un”eletto” rispetto alle altre forme della creazione. 
In realtà, a volte sembra davvero uno scarto dell'evoluzione.
L’altro giorno tentavo di attraversare la strada sulle famose, civilissime strisce. 
Che però non servono a nulla. Stanno lì, questi decori urbani, queste pitture zebrate, a ricordarci la loro magnifica inutilità.
Quando ti vedono, le macchine accelerano mentre il guidatore, con aria da ebete, fa finta di guardare altrove (è noto: mentre si guida si guarda sempre di lato, mai davanti a sé, per contare i numeri civici delle abitazioni…).
Così lui evade dalle tue grida, scansando i tuoi pugnetti chiusi agitati al vento, ridicola forma di rimprovero verso il gigante metallico che ha generosamente risparmiato la vita alla formichina.
Poi magari prendi il motorino, e ti trasformi anche tu in un orribile mostro che a sua volta gareggerà con i pedoni per la conquista della strada.
Ricordo che vent’anni fa, quando vivevo in California, a San Diego, rimanevo stupita davanti alla cortesia delle auto che si fermavano, diligenti, non appena qualcuno accennava ad attraversare la strada. 
Del resto l’America è un paese strano, pieno di contraddizioni. 
La cortesia delle auto convive con la crudeltà degli ospedali in cui sei obbligato a pagarti la vita, altrimenti nulla da fare, senza assicurazione si muore.
Tornando alle strade, appena rientrata in Italia provai ad applicare la magica formula: “Prego-io-auto-lei-pedone-passi-pure” ma…niente da fare. 
A rendere ancora più grottesca la situazione, ecco che il pedone di turno manifestava evidenti segni di imbarazzo e irritazione, non sapendo come comportarsi davanti alla macchina sconsiderata che si fermava. 
Iniziava così la danza dell’”un due tre, un due tre, un passo avanti due indietro” in cui auto e pedone si misuravano, incerti, bloccando l’intero scorrimento del traffico.
Sono dunque tornata alla mia italianissima (e non solo) maleducazione, dimenticando le buone maniere della città di San Diego.
Nelle grandi città vivere come pedoni è sicuramente una prova di grande coraggio. 
Un' arte della sopravvivenza.
Nelle grandi città, d’estate, si vive, in realtà, “come d’autunno sugli alberi le foglie”, zigzagando nel traffico fra gente ubriaca di caldo, isterica ancora prima dello spuntar del sole, quando l’ultima stella si spegne.
E l’isteria collettiva non fa certo bene. 
Io alla macchina preferisco il motorino, più agile, più facile da parcheggiare, che però non risparmia il delirio delle trasferte su ruote.
Quando guidiamo, chissà perché, emergono gli istinti peggiori. 
Viene fuori la bestia che è in noi, quella che, in ufficio davanti ai colleghi oppure a casa, in compagnia della moglie, teniamo - da bravi - al guinzaglio.
Liberata, sulla strada la bestia fa danni. Fa sempre danni.
Ecco che allora siamo pronti a sfanculare il vicino, gareggiamo come idioti per la conquista del primo posto davanti al semaforo (manco fosse un concerto di qualche star), urliamo e aggrediamo e spintoniamo chiunque.
Non mancano poi le scene tipo. Come quella del tizio in auto che si piazza in mezzo alla strada per attraversare, e che ti attende con la faccia da tontolone, la bocca aperta a "o" manco avesse visto un fantasma, obbligandoti ad inchiodare per non investirlo. E tu, pieno di livore, sei costretto a cedere il passo.
Altra scena caratteristica: la strombazzata di clacson a un nanosecondo dallo scatto del semaforo verde. Terribile. 
Devi partire subito, sincronizzato, altrimenti le macchine dietro di te cominciano a strillare e a fare casino.
E questo ti porta dritto dritto verso un’altra scena grottesca dal sapore classico, quella che riguarda il coro da stadio di clacson quando qualcosa o qualcuno blocca il traffico.
Ho sempre pensato che chi suona in questo contesto è il padre dei pirla di tutto il mondo. 
Ma che c’è da suonare? Mica le auto si spostano per la caciara…Vedere queste code nevrasteniche che suonano al vuoto crea uno smottamento nella mia pazienza. 
A chi suoni? All’auto rotta in mezzo alla strada? Guarda che non si sposta neanche se chiami a raccolta tutti i santi del paradiso! 
E non pensi mai che se qualcuno o qualcosa ostruisce il traffico…basta aspettare? Che anche quel qualcuno o qualcosa si rompe di tutto quel rumore e che dunque è obbligato – in quel momento – a stare lì, impotente davanti alla riunione di clacson e di improperi lanciati da te e da tutti i tuoi colleghi automobilisti? 
Non pensi che sta cercando il modo di ripartire, e che forse - dico forse - è successo qualcosa? Pirla!
Perbacco, che tristezza osservare queste quotidiane demenze.
Specie d’estate, specie quando il sole rovente squaglia anche i pensieri. 
Ed ecco che allora il peggio del peggio, a piede libero, dà il meglio di sé.
Ogni mattina, quando indosso il casco, penso alla sua somiglianza con un elmetto. 
Già. Perché la strada è una guerra. 
Una guerra continua. 
Fine pena mai. 

Francesca Pacini