Alcuni desideri si adempiranno
altri saranno respinti. Ma io
sarò passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse guardata
risulterebbe ugualmente giustificato -
per quel lucente attimo - il mio esistere
Margherita Guidacci
Stella cadente
da "Anelli del tempo"
Edizioni Città di vita, 1993



Chi vive, vive la propria vita. Chi legge, vive anche le vite altrui. Ma poiché una vita esiste in relazione con le altre vite, chi non legge non entra in questa relazione, e dunque non vive nemmeno la propria vita, la perde. La scrittura registra il lavoro del mondo. Chi legge libri e articoli, eredita questo lavoro, ne viene trasformato, alla fine di ogni libro o di ogni giornale è diverso da com'era all'inizio. Se qualcuno non legge libri né giornali, ignora quel lavoro, è come se il mondo lavorasse per tutti ma non per lui, l'umanità corre ma lui è fermo. La lettura permette di conoscere le civiltà altrui. Ma poiché la propria civiltà si conosce solo in relazione con le altre civiltà, chi non legge non conosce nemmeno la civiltà in cui è nato: egli è estraneo al suo tempo e alla sua gente.
Ferdinando Camon
Tenebre su tenebre
Edizioni Garzanti, novembre 2006


Si, scrivere significa perdermi, ma tutti si perdono, perché tutto è perdita. Però io mi perdo senza allegria, non come il fiume nella foce alla quale nacque ignaro, ma come la pozzanghera creata sulla spiaggia dall'alta marea, e la cui acqua, inghiottita dalla sabbia, non tornerà più al mare.
Ferdinando Pessoa
Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares
Edizioni Feltrinelli, 2003


L’aria è di tutti, non è di tutti l’aria?
Così è una piazza, spazio di città.
Pubblico spazio ossia pubblica aria
che se è di tutti non può essere occupata
perché diventerebbe aria privata.
Ma se una piazza insieme alla sua aria
è in modo irrevocabile ingombrata
da stabili e lucrose attività,
questa non è più piazza e la sua aria
non è che mercantile aria privata.

Cos’è una piazza, cos’è quel dolce agio
che raccoglieva i sensi di chiunque
abiti a Roma o fosse di passaggio?
È un vuoto costruito a onor del vuoto
nell’artificio urbano del suo limite.
Se si riempie è per tornare al vuoto
perché a costituirla è proprio il vuoto.
Non fosse vuota infatti non potrebbe
accogliere chi passa e se ne va.
Per dargli maggior credito s’innalzano
fontane e statue: certo sono belle
e grazie al vuoto vantano splendore.
Ma c’è qualcosa che è più della bellezza,
è il loro appartenere necessario
a quel sicuro chiaro spazio vuoto.
E questo è più orgoglioso grazie a loro.
Un vuoto generoso di potere,
una salute certa dello spirito,
un bene di città fatto interiore.
Poveri quelli cui mancano le piazze.

È naturale che si vada in piazza,
ci vanno tutti, e certo non c’è piazza
che si attraversi in fretta: quasi una timidezza
rallenta i passi alle fontane, all’acqua
che fa il suo giro e torna su se stessa.
La mente sosta insieme al corpo e guarda
lo spazio e l’aria del riposo, ossia
la piazza.

Dunque una piazza va lasciata in pace,
non è merce da farne propaganda.
Ci pensa lei da sola ad animarsi,
quello che importa è che sia pubblica piazza.
Si vuota si riempie e poi si vuota,
accoglie chi sta fuori e lo contiene
finché sta fuori, che prima o poi dovrà
tornare dentro. E se non è così
non è più piazza, è privata terrazza
o lugubre infinito lunapark.

La felice bellezza negligente
sta ferma intorno a te senza rumore,
l’hai vista, sai che c’è, neanche la guardi.
Era il lusso di andarsene per Roma.

Ci sono forse altre città del mondo
che hanno piazze più belle delle nostre,
piazze perdute alla vista e al cuore,
piazze vendute insieme alla città?
Patrizia Cavalli
Aria pubblica
da “La Guardiana”
Edizioni Nottetempo, 2005