Quasi amore, Ugo Cornia, Sellerio editore

Cos’è che si prova quando una storia d’amore finisce inaspettatamente? “Uno sbrago micidiale”, ecco cosa si prova.
Quasi amore, prima di essere il racconto di alcune storie d’amore andate in frantumi, è un viaggio tra i pensieri disordinati dell’autore. Una sorta di passeggiata tra i borghi dell’Appennino tosco-emiliano, passando da una gita a Ferrara “con una che mi piaceva”, alla siepe di bocche di leone davanti alle case di Guzzano. Il tutto scardinando, in poche ore, le più elementari regole di sintassi a cui da sempre siamo stati abituati. Ma l’energia di questo librettino sta proprio nell’ironia dello scrittore, nelle metafore utilizzate e nel modo di descrivere le situazioni così come attraversano la sua mente. È una scrittura istintiva che rincorre il filo dei pensieri, senza filtrarli o immobilizzarli in schemi sintattici preconfezionati.
I discorsi strampalati dell’io narrante, trentaquattrenne confuso, si concludono con osservazioni che, nella loro semplicità, ci lasciano interdetti perché racchiudono stati d’animo noti a ciascuno di noi. La sensazione di avere un “mattone piantato sotto lo sterno”, l’incertezza, il senso d’abbandono, la percezione di un’esistenza che ti si sfilaccia tra le mani, la gioia per i puri piaceri della vita “che, come tutti i piaceri migliori, è proprio un piacere fatto di niente”.
E con questo tono scanzonato, Quasi amore ci ricorda che la vita altro non è che un susseguirsi di pomeriggi noiosi e pomeriggi movimentati, di gioie sconsiderate e di momenti di annichilimento. E che, in fondo, il segreto di tutto sta nel mutamento: ad ogni fine segue sempre un inizio perché “è nella natura del mondo di rifarsi continuamente, di farsi e disfarsi e di asfaltarsi e disasfaltarsi”.
(Barbara Porretta)




                                            Mille anni che sto qui, Mariolina Venezia, Einaudi 





Concetta, Albina, Candida, Alba, Gioia. E Costanza, Lucrezia, Cicia, Angelica.
Sono tante, e forti, le donne che popolano le pagine di questo romanzo. Così forti e umane che fanno passare in secondo piano i pur tanti uomini della famiglia e del paese. Siamo a Grottole, in Lucania, piccola comunità rurale dove il tempo sembra scorrere così lentamente che la nonna Candida, nelle ultime pagine del libro, dice “Mi pare mille anni che sto qui”. Ed è in questo angolo di un sud poco conosciuto che si snodano le vicende della famiglia Falcone, partendo dal severo capostipite don Francesco e poi giù fino a Gioia, ultimo frutto dell’albero genealogico. Vicende che iniziano nel confuso periodo dell’unità d’Italia e attraversano più di un secolo di storia, fino ad arrivare alla caduta del muro di Berlino.
L’autrice narra tante storie in una, e una sola storia attraverso tante. E lo fa con una prosa immediata, avvolgente, che rievoca in tutti noi, figli della stessa Italia, la memoria di un comune passato.
(Susanna Squillaci) 










                                                  La sovrana lettrice, Alan Bennet, Adelphi 

"Ragguagliare non è leggere. Anzi, è l'esatto contrario. Il ragguaglio è succinto, concreto e pertinente. La lettura è disordinata, dispersiva e sempre invitante. Il ragguaglio esaurisce la questione, la lettura la apre."
La Regina Elisabetta II scopre il piacere della lettura.
Sembra una novità priva di importanza, un atto silenzioso, potremmo dire personale, che invece innesca una serie di “scandali” e di voci sulla salute mentale di Sua Maestà. 

Nelle pagine di Bennet, quasi un racconto dell’apprendistato della lettura, questa emerge nelle sue molte sfaccettature. L’autore segue i progressi della regina che da lettrice inesperta, che legge tutto dalla prima all’ultima riga, si trasforma in una lettrice esigente e attenta: con un gusto ormai affinato trova piacere nelle piccole sottigliezze che solo uno sguardo sensibilizzato è in grado di cogliere.
In questo periodo di apprendistato la regina si scontra con il suo ruolo, un ruolo costruito come una recita in cui tutto è programmato, sia i momenti formali che quelli informali.
Questo atto silenzioso viene vissuto dai suoi consiglieri come il famigerato granello di sabbia che potrebbe far inceppare l’intero sistema, funzionale e preciso come un orologio.
Un libro sulla lettura, sui suoi pregi (la sensibilità dovuta alla conoscenza dell’Altro) e i suoi difetti (il rapimento della passione).
(Simona Taborro) 





                                         Egemonia americana e “stati fuorilegge”, Noam Chomsky, Dedalo 

È sempre molto istruttivo leggere le riflessioni in materia di politica internazionale del più noto linguista vivente (autore, fra gli altri, del prezioso Capire il potere), perché è capace di destare ogni volta stupore e ammirazione per la lucidità delle sue analisi e la severità delle sue critiche, frutto (è bene precisare) non del livore di un intellettuale emarginato e arroccato su posizioni estreme, ma di un brillante docente del M.I.T. di Cambridge, il più prestigioso politecnico del mondo. A render tanto più degne di fede le sue parole è, come sempre, un imponente corredo di riferimenti bibliografici che rimandano, il più delle volte, a documenti ufficiali desecretati e dunque ormai disponibili alla lettura.

L’ovvia premessa è che gli USA sono l’unica superpotenza planetaria, almeno dal crollo del muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda in poi. Questo fatto innegabile, afferma Chomsky, ha rimosso il pericolo comunista che giustificava ogni sorta di iniziativa interna e internazionale e ha costretto le varie amministrazioni succedutesi alla Casa Bianca a trovare nuovi argomenti a sostegno di una politica che non ha mai smesso di essere imperialista.

Uno di questi argomenti, certamente il più accattivante e perciò sfruttato, è quello dell’intervento umanitario, di cui Chomsky non solo dimostra la pretestuosità con ampiezza di dati e testimonianze, ma sottolinea la vetustà. Ricorda infatti che il Giappone “voleva creare un paradiso terrestre” quando invase la Manciuria, che Mussolini stava “liberando migliaia di schiavi” quando condusse la “missione di civilizzazione dell’Etiopia” e che Hitler invase la Cecoslovacchia per “salvaguardare l’individualità nazionale del popolo tedesco e ceco dei Sudeti”.

L’altro argomento è quello dei cosiddetti “stati fuorilegge”, un concetto che ha la sua cornice legale nella Carta dell’ONU, trattato solenne riconosciuto come il fondamento del diritto internazionale e dell’ordine mondiale e secondo il quale “il Consiglio di sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace […] e decide quali misure debbano esser prese.” Ma nessuno stato, sostiene Chomsky, ha l’autorità per decidere in proprio e agire come gli pare. Aggiungendo anzi che gli USA “non avrebbero questa autorità anche se avessero le mani pulite – eventualità poco probabile.” Ricordo infatti che in Capire il potere Chomsky dimostrava come, applicando fedelmente i criteri definiti dal FBI per identificare gli stati terroristi, in cima a un’ipotetica classifica troveremmo gli USA stessi (seguiti dalla Gran Bretagna).

Gli esempi di questa condotta abbondano e Chomsky non si tira indietro, fornendo dati che rendono difficili le smentite: si va dallo sterminio dei nativi americani all’annessione della California (sottratta al Messico); alla guerra ispanoamericana, costata la vita a migliaia di Filippini; al Vietnam ma anche e soprattutto all’Indonesia, con il regime sanguinario del “nostro bravo ragazzo Suharto” e in definitiva all’intera politica latinoamericana, notoriamente il cortile degli USA (secondo la dottrina Monroe).

Emblematico il caso di Cuba e del vergognoso embargo che la affligge da 45 anni. La colpa di Castro, secondo Chomsky, non è certo quella di nascondere missili sovietici o di violare i diritti umani (cosa che fanno gli USA stessi e moltissimi dei loro stati amici e clienti) ma di aver voluto “prendere in mano i propri affari” e di costituire perciò un pericoloso esempio per tutti i popoli dell’America Latina che chiedono la possibilità di una vita migliore.

Non a caso, nel corso di quelle che Chomsky definisce le “guerre terroristiche americane in America Centrale negli anni ottanta”, la principale rivista intellettuale liberale spiegò che bisognava andare avanti “senza preoccuparsi di quanti se ne uccidevano perché noi abbiamo la nostra missione, come coloro che si autodefinivano santi e massacravano indiani nel New England con la sacra Bibbia in mano, i loro predecessori, e tanti altri: le orde mongole di Gengis Kahn, ad esempio, o gli uomini di Attila l’unno, o i Romani, o gli Assiri, o gli Ebrei, che conquistarono la terra di Canaa, per sceglierne alcuni di una lista molto lunga”. 

È così allora? E la storia che si ripete con altri protagonisti e in altre vesti? Dobbiamo smettere il nostro candore e accantonare la nostra indignazione? Inchinarci alla storia dei vincitori dedicando poche parole di circostanza ai vinti o al peggio denigrandoli per giustificarne lo sterminio?

Ovviamente Chomsky non lo crede e anzi, riesce a stupirci ancora, manifestando (come già aveva fatto in altre sue opere) un insperato ottimismo, perché “il particolare ordine socio-economico imposto è il risultato di decisioni umane all’interno di istituzioni composte da uomini; le decisioni si possono modificare; le istituzioni possono cambiare. Se necessario possono essere smantellate e ripristinate, proprio come persone oneste e coraggiose hanno fatte nel corso della storia". 
(Giulio Crotti)



                           Tra la nostalgia dell’estate e il gelo dell’inverno, Leif GW Persson, Marsilio


Non c’è migliore informatore di colui che non sa di che cosa si sta parlando. Si apre così il romanzo Tra la nostalgia dell’estate e il gelo dell’inverno di Leif GW Persson. La considerazione di apertura ci introduce nel clima del giallo, mentre il titolo evoca i sentimenti dell’umanità raccontata nei romanzi.
La storia si svolge in Svezia, ha per protagonisti poliziotti, agenti, servizi segreti e uomini politici e, tuttavia, non si può classificare univocamente senza sacrificare qualcuno degli aspetti che lo rendono così ricco e così avvincente da leggere. È vero, c’è un delitto dai risvolti incomprensibili, ma collocarlo soltanto nello scaffale dei gialli sarebbe riduttivo.
Pensiamo a Fred Vargas: leggendo i suoi libri sentiamo che il delitto, l’indagine, la ricerca del colpevole, sono soltanto un pretesto per raccontare i sentimenti e le vite degli uomini e delle donne, per farci conoscere i comportamenti e le manie e di un curioso ispettore. Persson, a questo tessuto narrativo, aggiunge le vicende storiche e politiche istruendo una storia in cui il delitto, i sentimenti e la società sono indissolubilmente intessuti. 

L’indagine si muove su una scacchiera che registra le mosse di poliziotti, agenti segreti e uomini politici. Il registro narrativo si alterna tra suspense e riflessioni di carattere morale, politico, sociale, lasciando che queste domande si materializzino, in modo leggero, nei personaggi e le pagine scorrono combinando in modo equilibrato i diversi livelli di lettura che l’autore ci propone.
Lo stile narrativo di Persson non prevede la soggettiva di un protagonista, non c’è una voce fuori campo che racconta o riflette: tutti i personaggi, di volta in volta, ci mettono a parte delle loro riflessioni con un effetto corale che ricorda gli angeli di Wenders: come loro, condividiamo il dolore, la nostalgia, la felicità dei passeggeri nella metropolitana di Berlino e questa “violazione” dell’intimità ci rende complici.

C’è un altro aspetto da sottolineare: siamo in Svezia e la cultura, il clima le abitudini sono diverse, eppure i vizi e le virtù dei protagonisti parlano un linguaggio universale. Cambia la latitudine ma gli uomini non cambiano: poliziotti onesti e corrotti, uomini politici, vecchie spie, affaristi, tradimenti. 
(Paola Giacché)


                               
                               L’ombra del serpente – Zsuzsa Rakowsky – Baldini Castoldi Dalai


Nella tormentata Ungheria del diciassettesimo secolo Orsolya, ormai anziana, decide di raccontare la storia della sua infanzia e della sua giovinezza, per riappropriarsi in qualche modo dell’identità che le è stata sottratta. Figlia di un farmacista che da sempre nutre dubbi sulla sua effettiva paternità e presto orfana della madre, Orsolya rimane per anni intrappolata in un rapporto morboso con il padre/marito, ed è costretta dalle circostanze a presentarsi alla società con il nome della matrigna scomparsa. Vivere nella menzogna la riempie di amarezza, la obbliga a diventare spettatrice di se stessa in una realtà che non le appartiene ma dalla quale non sa e non può sfuggire. 

Sullo sfondo di un periodo storico poco noto (quello dell’occupazione turca dell’Ungheria e dei conflitti religiosi durante la Guerra dei trent’anni), la pluripremiata autrice di questo romanzo ci mostra fino a che punto può spingersi l’animo umano pur di salvare le apparenze. Apparenze che, in realtà, spesso sono solo un alibi per giustificare le azioni più spregevoli e vili.
Zsuzsa Rakowsky ci trasmette con maestria le cupe emozioni della protagonista, grazie a una prosa elegante e descrittiva. Non è una lettura facile, che tuttavia merita di essere affrontata.
(Susanna Squillaci)