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Numero 13



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Il bambino con il pigiama a righe

Titolo originale: The boy in the striped pajamas
Nazione: Gran Bretagna, USA
Anno: 2008
Genere: drammatico
Durata: 1h40m
Regia: Mark Herman
Sceneggiatura: Mark Herman
Fotografia: Benoît Delhomme
Musiche: James Horner
Cast: Asa Butterfield, Jack Scanlon, Amber Beattie, David Thewlis, Vera Farmiga, Richard Johnson, Sheila Hancock, Rupert Friend, David Hayman, Jim Norton, Cara Horgan


Bruno è un bambino di otto anni, figlio di un ufficiale nazista che deve lasciare la sua casa di Berlino e gli amici per andare a vivere in una villa in mezzo alla campagna nei pressi di una “fattoria” circondata da recinzione di filo spinato, nella quale si trovano strani “contadini” che indossano un pigiama a strisce: il padre di Bruno è stato promosso ed ha avuto l’incarico di comandare un campo di sterminio. Annoiato perché senza amici, solo nella grande casa, e mosso dalla sua passione per l’esplorazione, Bruno decide di esplorare il giardino posteriore della villa e, disobbedendo alle istruzioni della madre, si avvia verso la “fattoria”. Giunto lì, dietro la recinzione, incontra Shmuel, un bambino della sua età molto esile, vestito con un pigiama a righe. L’amicizia con quel bambino ebreo avrà per Bruno conseguenze importanti sulla sua vita.


Tratto dall’omonimo romanzo dell’irlandese John Boyne, “Il bambino con il pigiama a righe” narra una storia di un’improbabile amicizia in un periodo orribile della storia umana, osservato attraverso gli occhi di un bambino, incapace di comprendere episodi così tragici e disumani.
Una storia drammatica che mostra un andamento fiabesco e che dunque risente di alcune incongruenze: è indispensabile fare un piccolo sforzo per digerire ad esempio la facilità con la quale Bruno, il bambino tedesco, riesce ad avvicinarsi al recinto del campo di concentramento e come Shmuel, il bambino ebreo, possa ogni giorno allontanarsi dal suo gruppo e rimanere indisturbato a parlare con il suo amichetto e, per giunta, non raccontare nulla di quello che avveniva all’interno del campo.
Il regista inglese Mark Herman sceglie tuttavia di seguire le orme del libro di Boyne e dunque di mantenere tali incongruenze in favore dell’aspetto favolistico puntando sull’amicizia dei due bambini, molto diversi tra loro ma simili nella loro innocenza. Da lodare la capacità di Herman di evitare facili cliché ed esibire una gamma di personaggi reali non imprigionati nei loro ruoli: il comandante sarà infatti oppresso tra i suoi doveri di militare ed i suoi rapporti familiari, in particolare con la moglie, e quest’ultima non riuscità ad accettare la realtà dei fatti cadendo in un abisso terrificante.
Nel cast ottimo sicuramente Asa Butterfield nei panni di Bruno, il piccolo attore manifesta emotività ed innocenza già solo attraverso i suoi profondi occhi azzurri. Pessima invece l’interpretazione di Jack Scanlon, nei panni di Shmuel, scialbo ed incapace di trasmettere il dolore e l’angoscia di un bambino oppresso dall’orrore dei campi di concentramento. Fiacche anche le prove di Amber Beatti (Gretel, sorella di Bruno) e di David Thewlis, nei panni del padre. Straordinaria invece Vera Farmiga, agevolata da un personaggio che offriva molte opportunità interpretative, passando dalla serenità della sua vita familiare all’orrenda consapevolezza delle reali attività del marito.
La qualità della fotografia di Benoît Delhomme può essere sintetizzata in una delle scene che vede di fronte i due bambini: Bruno, pulito e ben vestito, è in piedi carico di energia proveniente dalla sua allegria e dal suo desiderio di avventura, mentre Shmuel, sporco e con i capelli rasati a zero, indossa il curioso “pigiama a righe” è seduto perché stanco, triste e sofferente. Tra i due bambini un recinto di filo spinato che ostacola la loro voglia di amicizia ricalcando le loro vite così differenti.
“Il bambino con il pigiama a righe”, prodotto dalla Walt Disney, è un film che si rivolge ad un pubblico di bambini (in presenza dei genitori), che pur mostrando alcune contraddizioni troppo evidenti da poter essere trascurate, risulta coinvolgente e commovente, in particolar modo nel suo audace ed terrificante finale. 

Amos Gitai
http://amosgitai.blogspot.com/



Il cinepensiero di Kusanagi: consigli da vedere 
a cura di kusanagi
www.lavitaenientaltro.splinder.com

The Orphanage

(El Orfanato, 2007,  Spagna)

di Juan Antonio Bayona

con Belen Rueda, Fernando Cayo. Geraldine Chaplin

 

Certamente l´immagine finale di The Orphanage e´ una di quelle che restano nel cuore per molto tempo, e la sensazione con cui si esce dalla sala non e´ certo quella che ci aspetta da una pellicola presentata superficialmente come un horror, ma che in realta´ racchiude ben altro.

 

Perche´ il problema di fondo,  e anche il pregio maggiore di El Orfanato , titolo originale della pellicola di Ajuna, che lo accomuna peraltro alle pellicole ¨spagnole¨  di Guillermo del Toro (qui in veste di produttore) come El Espinazo del Diablo e El Laberinto del Fauno,  e´ proprio la fatica che si fa a costringerlo ed incasellarlo in una struttura di genere, anche se risponde a caratteristiche tipiche del racconto fantastico e di fantasmi.

 

La differenza sta proprio nella sensibilita´ con cui regista e scenaggiatore  trattano l´argomento, e nelle conclusioni a cui giunge, infatti come gia´ in altre opere (vengono alla mente Il Sesto Senso  oppure The Others) le certezze iniziali della protagonista ( e con esse quella di noi che guardiamo) sono destinate pian piano a sgretolarsi, per aprire gli occhi su una realta´ altra rispetto a quella percepita con i nostri spesso limitati sensi.

 

Infatti il ¨mettersi in gioco¨, qui applicato alla lettera in due tra le sequenze piu' emozionanti di un film, quella citata un po´ ovunque del ¨Un, due, tre,  stella¨ e quella della caccia al tesoro attraverso la magnifica casa in cui la storia si ambienta, conduce per mano la protagonista e noi con essa, in un´immedesimazione resa possibile dall´intensa interpretazione della bella attrice spagnola Belen Rueda,fino ad arrivare ad una conclusione inattesa dal punto di vista razionale, ma completamente logica all´interno dell´economia e dello sviluppo del racconto.

 

Anche qui, come in altre pellicole spagnole, il senso del fantastico e dell´irreale che irrompe nel reale ha conseguenze che sono solo all´apparenza tragiche, basti pensare al ¨terribile¨ finale de Il labirinto del Fauno, ma che risulta perfettamente comprensibile se si accetta una visione della vita non puramente materiale, ma trascendente e intimamente collegata con un mondo che va al di la´ di cio´ che possiamo vedere e toccare.

 

Un mondo a cui possiamo accedere solo credendo, nel senso piu' ampio che racchiude un termine che spesso diviene monopolio di questa o quella religione, snaturandone il senso piu´ intimo, che e´ quello di fiducia incondizionata,  e di amore.

 
Kusanagi

 
Leoni per agnelli 

(Lions for Lambs , 2007, USA)

di  Robert Redford

con Robert Redford, Meryl Streep, Tom Cruise.

 

Il problema, con Leoni per Agnelli, e' smettere di parlarne.

Perche' malgrado la sua striminzita durata di 90 minuti, dice talmente tante cose che si potrebbe riempire un trattato, a cominciare proprio dalla durata, che e' stata criticata, come se il numero di cose che ha da dire un film si misurassero coi metri di pellicola, concetto francamente ridicolo e gia' di per se' inquietante, indice di una mentalita' che si basa sull'opulenza,sulla quantita', e sui giri di parole, piuttosto che sulle poche parole, misurate e precise,  e soprattutto sui fatti.

 

Infatti con le poche parole che dice il regista/attore/professore Redford ci inchioda alle nostre responsabilita', private e collettive, culturali e politiche,  senza perdonare nulla a nessuno, nemmeno a se stesso, in quanto persona e in un quanto cittadino.

 

Non troverete facili risposte, in Leoni per Agnelli, non troverete frasi roboanti, non troverete alcun tipo di compiacimento, non troverete soprattutto nemmeno una parola fuori posto.

Le parole pronunciate dal Professore e dallo Studente, dal Politico e dalla Giornalista, o dai due Agnelli sacrificali, sono parole secche, dure, che richiedono di prestare attenzione a cio' che sottintendono, che implicano, ai rimandi tra una sezione e l'altra di questo trittico ideale di storie, a cui manca pero' una componente fondamentale,necessaria alla riuscita della "lezione" del Professore Redford, quella al di qua dello schermo.

 

Si perche' mai come in Leoni per Agnelli,  tutto lo sviluppo del film, il dialogo interminabile e il dibattito tra i personaggi in scena richiede lo sforzo attivo di noi Spettatori, che siamo direttamente chiamati in causa, a rispondere delle nostre colpe, che si rispecchiano ed amplificano in quelle dei personaggi sulla scena.

Non ho usato a caso le lettere maiuscole, perche' cio' che ha dato fastidio a molti, che hanno accusato a torto la pellicola  di superficialita',retorica, banalita' e via sminuendo, e' proprio la sua schematicita', il suo metter in scena personaggi che sono archetipi, piu che persone vere e proprie, che regista e sceneggiatore usano abilmente come caratteri di una tragedia, facendo recitare loro una parte in una messa in scena che e' priva di qualsiasi sovrastruttura.

 

La parte piu' esplicita dell'approccio minimalista del regista e' proprio il dialogo tra professore e studente, tutto dentro lo studio dell'insegnate, con poche frasi, che restano nella memoria come macigni, come quel Roma Brucia pronunciato a muso duro  di fronte alla  telecamera da un Redford che pare ormai stanco di ripetere le stesse cose e non esser ascoltato, stanco almeno quanto il personaggio che interpreta, che ha combattuto le stesse battaglie del regista/attore, e che mostra orgogliosamente la cicatrice di una manganellata ricevute durante le dimostrazioni pacifiste del '68.

 

Non e' piaciuto il patriottismo, di Leoni per Agnelli, il patriottismo delle persone che pensano che gli Usa non siano rappresentati solo ed esclusivamente dai  Neocon, da Bush, da Rumsfeld, da Cheney e dai fondamentalisti cristiani, ma che c'e' anche l'America democratica e liberal, quella dei Redford, di Sean Penn, di Susan Sarandon e di Tim Robbins, quella che si rifa' allla tradizione di liberta' e di diritti civili, in cui  hanno lasciato il loro marchio indelebile nella storia personaggi come Kennedy o Martin Luther King, ma anche dei padri fondatori, di Lincoln , di Washington e di Jefferson.

Persone che sono disposte a combattere, per piu' di una valida ragione, una battaglia che va combattuta in patria, dove bisogna svegliare le coscienze del popolo, e prima di tutto convincere le persone come lo Studente che il sogno americano non e' la casa con il giardino e la macchina parcheggiata davanti al garage, ma e' un sogno di liberta' e di diritti uguali per tutti, realizzabile solo  se ci si crede veramente.

 

Redford ha il pregio invece di parlare a tutti, di voler parlare con sincerita' e schiettezza a tutti coloro che hanno l'umilta', l'onesta' e il coraggio di sedersi ed ascoltare, anche perche' come detto all'inizio non da´ alcuna risposta.

Anzi,  ci dice che prima di tutto, l'importante e' porsi la giusta domanda, che non e' "Se vogliamo Bin Laden morto o no", come chiede il senatore repubblicano interpretato da  Tom Cruise alla giornalista liberal, interpretata in maniera perfetta da Meryl Streep, che smarrita non sa che risposta giusta da dare.

 

Perché è proprio trovare la domanda giusta da porsi, il problema,  e non appiattirsi a domande precotte da qualcuno che vuole dirigere la discussione su binari prestabiliti:

le domande vere da porsi sono semmai altre, come ad esempio  cosa facciamo ora , con quello che abbiamo ora, perche' coi se e coi ma e con i potevamo/dovevamo/volevamo si resta fermi, e si continua a fare il gioco di quelli che la sfiducia e lo schifo e il disfattismo ce l'hanno iniettato in dosi massicce nel sangue, tramite tv e giornali che sono ormai ridotti a veline del potere, economico e politico, apposta per continuare a controllarci come pecore.

 

Cosa sei disposto a FARE, tu, come dice Redford allo Studente , oltre che startene nel tuo salotto a rimpinzarti di tv spazzatura e credendoti intelettualmente e, moralmente   superiore  a tutti quelli che  provano a cambiare attivamente le cose,   anche sbagliando,  come i due Agnelli sacrificali,  e senza scelta o speranza, che muoiono in Afghanistan sotto i colpi dei taliban, ma comunque a FARE qualcosa in cui credono veramente, e per cui sono disposti a pagare le conseguenze,  per quanto alte  siano.

 

 Kusanagi