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Numero 8



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Il corpo di Attilio è ancora per terra quando arrivano i familiari. Due donne, forse la madre e la moglie, non so. Nel percorso si stringono, camminano avvinghiate, spalla incollata all’altra spalla, ormai sono le uniche a sperare che non sia come hanno già capito e sanno benissimo. Ma sono allacciate, si sostengono l’un con l’altra, un attimo prima di trovarsi dinanzi alla tragedia. E’ in quegli attimi, nei passi delle mogli e delle madri verso l’incontro con il corpo crivellato, che si intuisce un’irrazionale, folle, balorda fiducia nel desiderio umano. Sperano, sperano, sperano e sperano ancora che ci sia stato un errore, una bugia nel passaparola, un fraintendimento del maresciallo dei carabinieri che annunciava l’agguato e l’assassinio. Come se ostinarsi maggiormente nel credere qualcosa possa davvero mutare il corso degli eventi. In quel momento la pressione arteriosa della speranza raggiunge una massima assoluta senza minima alcuna. Ma non c’è nulla da fare. Le urla, i pianti, mostrano la forza di gravità del reale. Attilio è lì per terra. Lavorava in un negozio di telefonia e poi per arrotondare in un call center. Lui e sua moglie Natalia non avevano ancora un bambino”.

(Roberto Saviano, Gomorra) 






Sono giunto al termine di questa mia apologia di romanzo come grande rete. Qualcuno potrà obiettare che l’opera più tende alla moltiplicazione dei possibili più si allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’ enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
Ma forse la risposta che mi sta più a cuore dare è un’altra: magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…
Non era forse questo il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose?”

(Italo Calvino, Lezioni americane





All’inizio della mia carriera di scrittore ho recensito molto narrativa, ma dovevo fingere, come è prerogativa dei recensori, di avere letto molti libri fuori dal tempo, dallo spazio e dal mio carattere: in altre parole, dovevo fingere di non averli letti mentre ero stanco e nervoso, o bevuto; di non invidiare gli autori, di non avere una mia agenda di impegni, né gusti estetici o problemi personali; di non aver già letto altre recensioni della stessa opera, di ignorare chi fossero gli amici e i nemici dell’autore, di non avere in corso trattative per piazzare un mio libro allo stesso editore, di non essere stato invitato a pranzo da un’addetta stampa dagli occhi di cerbiatta. Soprattutto, dovevo fingere di non aver scritto la recensione perché mi servivano urgentemente duecento sterline. Essere pagato per leggere un libro e per poi scriverne crea una dinamica tale da compromettere il recensore secondo ogni modalità possibile, nessuna delle quali gli è d’aiuto.

(Nick Hornby, Vita da lettore






Niente come fare un film costringe a guardare le cose. Lo sguardo di un letterato su un paesaggio, campestre o urbano, può escludere un'infinità di cose, ritagliando dal loro insieme solo quelle che emozionano o servono. Lo sguardo di un regista - su quello stesso paesaggio - non può invece non prendere coscienza - quasi elencandole - di tutte le cose che vi si trovano. Infatti mentre in un letterato le cose sono destinate a divenire parole, cioè simboli, nell'espressione di un regista le cose restano cose: i "segni" del sistema verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i "segni" del linguaggio cinematografico sono appunto le cose stesse (...). Dunque se fossi andato nello Yemen in quanto letterato, sarei tornato con un'idea dello Yemen completamente diversa da quella che ho essendoci andato in quanto regista. Non so quale delle due sia la più vera. In quanto letterato sarei tornato con l'idea - esaltante e statica - di un paese cristallizzato in una situazione storica medievale: con alte e strette case rosse, lavorate di fregi bianchi come in una rozza oreficeria, ammassate in mezzo a un deserto fumigante e così limpido da scalfire la cornea: e qua e là vallette con villaggi, che ripetono esattamente la forma architettonica della città, tra sparuti orti a terrazza, di grano, di orzo, di piccole viti.

In quanto regista ho visto invece, in mezzo a tutto questo, la presenza "espressiva", orribile, della modernità: una lebbra di pali della luce piantati caoticamente - casupole di cemento e bandone costruite senza senso là dove un tempo c'erano le mura della città - edifici pubblici in uno stile Novecento arabo spaventoso, eccetera. Ho visto insomma la coesistenza di due mondi semanticamente diversi, uniti in un solo e babelico sistema espressivo.

(Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane)






Non mi aspetto che tu capisca. Non hai nemmeno visto niente di tutto questo, e non potresti neppure immaginarlo. Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è lì e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste più. Persino il clima cambia continuamente. Un giorno di sole seguito da un giorno di pioggia, un giorno di neve seguito da un giorno di nebbia, vento caldo poi freddo poi l'immobilità, un periodo di freddo più pungente e poi oggi, nel bel mezzo dell'inverno, un pomeriggio di luce fragrante, caldo al punto da far sudare. Quando vivi in città impari a non dar nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qualcos'altro e la cosa che era dinanzi a te è sparita all'improvviso. Niente dura, vedi, nemmeno i pensieri dentro di te. E non devi sprecare il tuo tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce.

(Paul Auster, Il paese delle ultime cose)