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Numero 18



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Signor G., libero come un uomo

 








Il musicista che ha sempre sfidato il qualunquismo, da qualunque parte si annidasse, ha portato  la sua corrosiva ricerca ai confini di ogni gabbia sociale e filosofica. Perché un'anima inquieta non si accontenta finché non spezza l'ultima catena...

di Stefano Bory

 
Giorgio Gaber é il Signor G., ed il  Signor G. ha sempre sofferto dell’ambivalenza tra la dimensione sociale e collettiva della vita come forma di oppressione e solo mezzo di riuscita alla possibilitá di scelta individuale: é questo gioco tra «I soli» e «L’uomo che perde i pezzi», tra «I borghesi» e «Il conformista». Per quello che ho percepito nei suoi modi di raccontare i suoi debutti artistici, giá quando faceva il chitarrista per Celentano non accettava del tutto le scelte artistiche e di contenuto, voleva fare diversamente, perché i 24000 baci erano solo la facciata del mondo di cui lui voleva parlare. Ma la libertá non é star sopra un albero...

Ed anche se il compromesso lo ha sempre fatto soffrire, non appena poteva cercava subito di introdurre nelle sue canzoni il disagio, la disuguaglianza sociale, il modo differenziato di distribuzione della libertá in relazione direttamente proporzionale con il modo differenziato di distribuzione della ricchezza. Suona chitarra, uno dei suoi primi "pezzi liberi", esprimeva giá in modo contenuto e moderato questa insofferenza verso le pressioni sociali, Giorgio voleva giá all’epoca cantare dei poveri, dei sofferenti, dei discriminati: «ma se canto cosí io non piaccio, devo fare per forza il pagliaccio.» E allora «suona chitarra e facci divertire, sona chitarra e non farci mai pensare», alludendo chiaramente all’alienazione da consumo culturale di massa ed al conseguente assopimento di coscienza di classe come descritti dalla sociologia francofortese
[1]

É dello stesso periodo Barbera champagne, canzone profondamente impregnata di riflessione sulla disuguaglianza sociale contrapposta all’uguaglianza esistenziale, disuguaglianze talmente ben camuffate da una musica orecchiabile e da ondeggio della testa che ai concerti (quelli del Gaber vecchio, in cui la canzone viene proposta come bis) sono le vecchie signore borghesi imbellettate a serata di gala che ne cantano il ritornello (solo quello...) con vergognoso spirito d’amarcord. G. le guardava con con tenerezza e commiserazione, come quando raccontando una fiaba di Esopo si accontentano bambini inconsapevoli dell’etica profonda che ne sottende la trama... G. lavorava cosí all’inizio, nascondendo la bomba sotto ritornelli orecchiabili e jingles da piccola orchestra, cioé infilando la supposta senza che nessuno se ne accorgesse perché troppo intento a fischiettare. Poi ha capito che non andava, che la supposta voleva farla sentire eccome. Ma la libertá non é neanche un gesto o un’invenzione.



La musica quindi cambia cambia... Nasce il Signor G.! E Lo scatch da cabaret di Goganga si trasforma in monologo da «teatro canzone» attraverso due lunghi decenni di elaborazione della societá borghese contrapposta alle sofferenze, alle manie, ai piaceri, alle pulsioni stesse dell’individuo. La pressione sociale e la mancanza di autonomia diventano temi importanti, ed il Signor G. soffre del bisogno collettivo di far finta di essere sani, quel falso bisogno di omologazione che spinge tutte le cose ad andare avanti senza riflettere per forza fino in fondo sul loro significato e sulla loro valenza; il Signor G. «vede bambini cantare mentre in fila li portano a mare, non sanno se ridere o piangere,  batton le mani», e lo stesso accade al pubblico che lo ascolta al termine delle sue riflessioni. Quale immenso legame tra la libertá espressiva del G. autore/artista/cantante con l’oppressione del G. automa/borghese/cantato: «vorrei essere libero, libero come un uomo!». G. canta il ritorno alla dimensione istintiva, naturale, avventurosa dell’uomo senza sovrastrutture socioculturali, ma ne canta allo stesso tempo il litigio con contratto sociale hobbesiano che impedisce a queste dimensioni di prendere il sopravvento sulla sua vita come su quella di tutti. Ne vien fuori una conclusione del tutto moderata, secondo cui la libertá, quella possibile, «é partecipazione». I dischi che seguono il  filo del concetto di libertá sono emblematici giá nei loro titoli: Pressione bassa, Polli da allevamento, Anche per oggi non si vola, nascondono dietro numerosi momenti di piacevole autoironia questo senso profondo di rassegnazione: libertá é partecipazione, ma la partecipazione libera non é possibile anzi diventa Libertá obbligatoria.

 

Partecipazione a cosa? Alla vita collettiva, alla crescita, allo sviluppo, alla POLITICA? Il Signor G. non lo ha mai ammesso, ma quella libertá da lui tanto propugnata (non ha mai smesso di cantarla quella canzone durante i bis dei suoi concerti...) non é possibile, perché «la politica é schifosa, e fa male alla pelle!!!». Il Signor G. arriva ad un nuovo punto di svolta, e grida la sua rabbia nei confronti di questa sbagliata applicazione della libertá come partecipazione immaginandosi nei panni di Dio, inveendo per venti minuti sul degrado dell’uomo medio e della societá italiana dei primi anni ’80. Ed ascoltandolo sembra chiaro che le cose non siano davvero cambiate. Le sigle dei partiti non sono piú le stesse, ma le dinamiche e le modalitá di espressione «dell’idiozia che fa democrazia» non sembrano affatto cambiate, come nel caso dei giornalisti, che oggi piú che mai sono diventati «cannibali, necrofili, de amicisiani astuti e si direbbe proprio compiaciuti» capaci di buttarsi «sul disastro umano con il gusto della lacrima in primo piano». 

Il Signor G. cambia vita, prende le  distanze e si ritira in campagna, getta la sua tessera di partito, si estranea e decide che non vale la pena di battersi (ma non era lui che diceva che la libertá non é star sopra un albero?), é al massimo apice dell’ira, non si salva nessuno: la libertá annientata dal malcostume e dalla corruzione politica come dall’ignoranza violenta del piccolo borghese si riscatta almeno parzialmente nella libertá di espressione artistica. Ma anche questa libertá non é esaudita, relizzabile, soddisfatta. Il Signor G. cantante non é piú libero del suo speculare cantato, perché il disco viene censurato, non si puó urlare che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana sono stati «il responsabile maggiori di trent’anni di cancrena italiana», e chi possiede una copia di quel disco inciso solo su un lato, con la copertina nera come il panorama che viene descritto al suo interno, é davvero molto molto fortunato. Il Signor G. prende coscienza che l’utopia é e resterá solo utopia, prende consapevolezza che lui stesso non é libero. A partire da questo momento, la G. diventa l’iniziale di un altro signor, «Il Grigio».



Eppure quanta energia, quanta forza e voglia di vivere nelle canzoni piú “spensierate”, in quele piú legate alla vita privata, ale cose della vita quotidiana: «Luciano» che viene a sfogarsi delle sue sofferenze d’amor e mentre G. deve assolutamente andare in bagno (é piú importante il bisogno fisiologico o quello spirituale?); «l’odore» puzzolente che lo assedia mentre cerca di sedurre una dolce ed innocente ragazza; «il pelo» come oggetto di distinzione e di riconoscimento del potere; «lo shampoo» come momento di liberazione esistenziale da una brutta giornata e cosí per trent’anni. Ma per trent’anni anche la sensazione di una libertá impossibile, di un distacco intenzionale dalla vita civilie, al punto da accettare senza condizionamenti pubblici la militanza forzaitaliota della sua compagna di sempre, che tutti ci siamo chiesti: “ma come cazzo fa a stare con una deputata di Forza Italia!?” La sua risposta non é mai arrivata in modo diretto attraverso un suo testo, un suo monologo una sua canzone. Siamo solo consapevoli che, forse, questa relazione é stata il momento piú forte di espressione libera dell’amore che G. abbia mai vissuto, riuscendo ad amare liberamente come nella sua canzone «Quando saró capace di amare», in  cui riferendosi alla sua donna afferma: «potró guardare dentro al suo cuore, avvicinandomi al suo mistero, non come quando ragiono, ma come quando respiro.»



La vecchiaia, la sensazione di un percorso ormai quasi del tutto completo, spinge G. ad essere meno grigio col mondo, nonostante le sue ultime opere artistiche affermano la sconfitta della sua genenrazione, il rimpianto verso la societá del “pensiero”,il suo rifiuto del sentimento di appartenenza nel suo ultimo disco «Io non mi sento italiano». Senza fare riferimento ad alcuno dei suoi testi, il declino e la sconfitta proclamate dal G. stanno nella oramai palese della ricerca di una piccola e spesso misera libertá individuale e privata a discapito della lotta per la ricerca di una libertá collettiva e pubblica, che fosse di tutti, «Qualcuno era comunista» porta dentro di sé questa riflessione. Il Signor G. non ha mai accettato la dicotomia individuo-societá come un’opposizione, ha sempre cercato di risolverla nel senso di partecipazione che dava la sua idea di libertá («se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione»), ma non ha mai trovato una soluzione nella sua esperienza storica. Il Signor G. poi é morto, e forse é con la morte che questa maledetta libertá l’ha trovata. O forse é stata lei a trovarlo.



[1] Per chi ne ha voglia, si fa riferimento alla dialettica dell’Illuminismo di Adorno ed Horkaimer, di cui esistono varie edizoni.