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Numero 18



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L’area del triangolo

 



Destra, sinistra. E una passeggiata in un terzo luogo  per chi vuole provare a  riconoscere che le verità non sono sempre unilaterali. Dal due al tre. Impresa audace e impopolare
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di Giovanni Picchia

 

 

Destra, sinistra. Avanti, marsch. E chi non si riconosce completamente né nell’una né nell’altro verso di marcia? Senza per questo vagheggiare la restaurazione di un centro ecumenico, democristiano?

La libertà di pensiero ha un prezzo altissimo da pagare: la solitudine. Lo sapevano bene certi  intellettuali e scrittori. Un esempio? Pasolini, ovviamente. Schierato a sinistra senza accettare tutto ciò che la sua famiglia ideologica gli propinava. Nel famoso, citatissimo episodio di Valle Giulia leggiamo ancora oggi la denuncia di un intellettuale che aveva fatto il suo lavoro sul serio, scovando le contraddizioni che si agitavano anche nelle mura domestiche targate – in questo caso - Pci, denunciandole, violando la facile omertà dell’appartenenza. Un gesto difficile, coraggioso.


Ma è raro che un gruppo politico riconosca  alcune “verità” nello schieramento opposto. Soprattutto oggi, con i toni delle discussioni saliti alle stelle. E se qualcuno invece, come dicevamo, volesse di volta in volta osservare liberamente un fatto, un pensiero, senza per questo vincolarsi al pre-giudizio dovuto al “marchio” di provenienza? Possibile, con uno scotto da pagare però: diventare l’orfano di tutti.  Accade a chi cerca di superare il bianco e il nero dei confini politici, riconoscendo fatti e misfatti nei due diversi territori  ideologici. E poi la realtà è così complessa da impedire una verità assoluta che stia solo…da una parte. Ma come fa chi riconosce alcune affinità di pensiero con l’uno e con l’altro schieramento?

Ad esempio i gay. Se sono d’accordo sul loro diritto di amare liberamente ma non trovo giusto che adottino i bambini da che parte mi metto?


Se per me è importante difendere i più deboli ma allo stesso tempo sono consapevole che non siamo tutti uguali che fine faccio? Un po’ a destra e un po’ a sinistra?

Se amo il mondo degli antichi sono a destra. Se invece lodo il progresso laico della comunità vado a sinistra. Se opto per una via di mezzo? Se per caso mi piacciono sia Pound che Calvino? Cèline e  Virginia Woolf?

Prendiamo la democrazia. Avere nostalgia per il passato, per i tempi remoti fatti di imperi e sovrani è un concetto di destra. E se  la nostalgia fosse per un principio gerarchico di diversa natura? Se l’atteso ritorno del Re per me prevedesse, invece dello sbarco dei Savoia in Italia, la restaurazione del regno di Artù? Sarebbe di destra?

E se dovesse avere lo stesso Cuore di Cristo faccio parte dei cattocomunisti? Del resto quella di Marx era la trasposizione ideologica, apparentemente atea, di un concetto cristiano, quello in cui la comunione fa superare ogni barriera individualista. Un concetto troppo “elevato” che presuppone una reale evoluzione interiore, difficile da raggiungere. Ne è venuta fuori una religione atea con le sue luci e le sue ombre. Perché se un’idea è valida, è sempre l’uomo che frana (e la Chiesa ha certamente dato il suo contributo).  

Nella fragilità degli “assoluti” sta la meravigliosa contraddizione dell’essere umano, sempre in cerca di –ismi e sempre disarcionato, nelle sue crociate al galoppo, dai limiti di cui per sua natura è composto. Uno di questi limiti, forse, sta proprio nella pretesa di definire i bianchi e i neri, come in una partita di scacchi, muovendosi in modo da evitare i confini.

Destra e sinistra infatti sono connotazioni politiche che corrispondono a un’idea precisa del mondo in cui a volte però questa precisione diventa una gabbia, un confine. La realtà è più sfumata, polivalente.


Dire di sì, sempre, a un’idea non significa necessariamente forza. E neanche coerenza. La forza vera sta nel coraggio di chi ha il coraggio- appunto -  di cambiare idea, o di metterla in dubbio. Troppo facile trincerarsi dietro ciò che il nostro partito ha stabilito per noi senza mettere il naso fuori, sniffando l’aria che tira nei paraggi degli avversari, anzi turandoci le narici con due batuffoli di cotone per il rischio di annusare – toh – un profumo. Ci vuole un senso eroico per questa posizione. Esattamente come lo aveva Pasolini. Che malgrado la sua iniziale conversione ai modelli laici e progressisti alla fine si arrese davanti al presagio di una nube minacciosa che avrebbe gettato il diluvio sulle terre antiche  e innocenti, mangiate e inglobate dalle città che tutto livellavano, inghiottivano, non restituivano. In questo caso la sua religiosità istintiva, non certo ecclesiastica, gli faceva intuire l’imminenza di uno sfacelo dovuto al presunto progresso, quello stesso progresso che oggi chi vota a sinistra deve continuare a caldeggiare a oltranza senza porsi domande.


Il dualismo è certo la base stessa dell’esistenza, ma è allo stesso tempo lo stimolo a cercare una sintesi, un nuovo modo di percepire la realtà che sia in grado di inglobare i bianchi e i neri della nostra scacchiera.

Chi studia le scienze sacre sa benissimo che i numeri matematici possiedono anche qualità filosofiche, come ci insegna Pitagora. Il due, cioè il numero che mette in gioco le diverse macro-categorie politiche che si contendono la giusta visione del mondo, segnala un’opposizione, un conflitto. Benissimo. Dal conflitto nasce la vita. Il conflitto è vita. Allo stesso tempo però rischia di invalidare la possibilità di uno sguardo più ampio in grado di catturare l’ambivalenza che sostiene ogni cosa, difficilmente sostenibile dallo sguardo umano. Se infatti pensassimo sul serio che ogni cosa è duale al suo interno, e non solo nella rappresentazione esterna in cui sistemiamo comodamente le luci da una parte e le ombre dall’altra, giocando, come da piccoli, a schierare i buoni e i cattivi, rischieremmo di vivere in un pericolosissimo territorio liminale in cui cade ogni presunzione di verità. 

Ci sono ombre e luci a destra, e ci sono ombre e luci a sinistra. Solitamente la mente umana proietta all’esterno la sua parte ombra, individuando un fuori apparente in cui depone ciò che di lei non le piace, o la terrorizza. Quanti però si chiedono, onestamente, quali aspetti di sé stessi combattono nello schieramento opposto? Se sono di destra  e faccio la guerra ai transessuali non è che per caso temo l’androgine che vive in me? Se a sinistra milito contro il razzismo destrorso non sto attaccando il mio, di razzismo? È un discorso difficile, questo, e impopolare. Nessuno vuole ammettere che l’ombra interiore viene spostata e appiccicata altrove in modo da essere combattuta meglio (ma è davvero così?). Quando il capro espiatorio raccoglieva la mondezza di un popolo e veniva ucciso, o inviato nel deserto per divenire preda del demone Azazel, non assumeva forse su di sé l’ombra collettiva di un popolo?



Il riconoscimento di questa ombra sarebbe già un passo in avanti. Il passo successivo sarebbe quello di considerare come l’ambivalenza sia parte del regno dell’uomo. Il numero due, il numero dell’opposizione, è  la rappresentazione di una divisione che mette in campo due fazioni  (come quando due squadre giocano una partita di calcio) che così si osservano e si combattono. Prima vince uno, poi l’altro.   Ma  non è così semplice. Torniamo alla rappresentazione simbolica di queste due realtà. 

Entrambe sono necessarie (senza squadra avversaria non avrei nemmeno...gioco, cioè vita) per continuare a prendere coscienza di un polo opposto che mi fa percepire come distinto; il punto è che senza ciò che considero opposto non sarei neppure integro in quanto anche ciò che è apparentemente fuori di me mi appartiene e mi aiuta a conoscermi nei limiti come nelle possibilità.



Il vero salto di qualità però arriva, metaforicamente, con il tre. Dunque con la sintesi, con il collegamento tra due poli opposti che trovano una soluzione di continuità integrandosi fra loro e approdando a una diversa “qualità dell’essere”. Non stiamo parlando esclusivamente di un “centro”, ma di terzo elemento in cui l’opposizione venga sanata attraverso uno scatto di qualità del pensiero. Nel tre sono presenti sia l’uno che il due.

Sembrano solo vagheggiamenti ideologici, e invece sono una mappa utile per chi vuole guardare un po’ più in là. Costa caro, costa quasi la pelle. L’ombrello protettivo della nostra famiglia ideologica ci fa stare al calduccio, è come una bella sciarpa di lana grossa in una sera d’inverno. Eppure anche senza approdare a una vera rinuncia basterebbe ammettere che le chiavi dell’assoluto non sono di questa Terra. Non stanno né a destra né a sinistra. E neppure in un centro di comodo, per i fuggitivi delle due fazioni. Perché non provare a guardare la realtà nelle sue sfumature senza per questo costringerla sempre in un confine preciso, con tanto di marchio d’origine? Perché attenzione, in questi prodotti unilaterali rischiamo di non accorgerci mai della data di scadenza. E neanche della presenza di ogm. Fate voi.