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Numero 18



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Il gioco di Maya


C'è chi dice che il mondo sia una sorta di Luna Park illusorio in cui la vera realtà è coperta da un velo. "Vedere" questa sorta di essenza ultima delle cose non è impresa facile, ci vuole coraggio. Ma in che consiste, esattamente? E chi si diverte a imbrogliarci?

di Claudio Lanzi

Parlare sinteticamente di Maya (usualmente classificata come illusione ma anche come potenza) non è affatto facile. Purtroppo lo yoga nostrano e un buddismo consumistico hanno reso questa categoria filosofica e metafisica, oggetto di discussione salottiera. Cercherò, per tale ragione di sfiorare, assai indegnamente in verità, alcuni concetti che procedono dai Veda e che attraverso il brahamanesimo, approdano nel buddismo. 

I tre fondamentali veicoli (o correnti folosofiche) del Buddismo classico (il Mahayana, l’Hinayana e il Vajarayana), trattano la Maya in maniera leggermente diversa e altri approcci si hanno anche nel Buddismo Zen o il quello Tibetano. Ogni asceta, ogni filosofo orientale ha “aggiunto” qualcosa di particolare alla definizione della Maya e, come vedremo, ciò ha consentito anche all’occidente di ritrovare, in alcuni aspetti del suo apparato mitologico-religioso, delle categorie filosofiche assimilabili alla Maya Buddista e Induista.

Nei Veda, ma soprattutto nelle Upanishad il concetto di Maya deriva da quelli di tempo, di spazio e di causalità. Senza un tempo, uno spazio ed un concatenamento di cause, non avrebbe senso la domanda sulla consistenza o meno della realtà fenomenica, degli eventi. Tale aspetto, che in fondo coinvolge, anche se con altri nomi, gli aspetti più sottili della filosofia occidentale, è straordinariamente “moderno” soprattutto se pensiamo a quanto la fisica (quantistica, teoria delle stringhe, ecc.) si sia industriata dietro tali concetti che, a partire dalla 
relatività ristretta hanno modificato la percezione illuminista e darwinista del mondo. 

Oggi, tanto per fare una facile battuta, solo… Piero Angela e Corrado Augias (e ovviamente la Margherita Haak) sono rimasti orgogliosamente abbarbicati ad un darwinismo “laico”, in cui la dimensione del tempo prevede, attraverso una evoluzione casuale, l’improvviso sviluppo dell’uomo e della coscienza. La riscoperta della Maya e quindi della necessità di un processo assolutamente inverso, che proceda alla liberazione della ignoranza causata dal velo fenomenico, verso l’originaria chiarezza, stravolge lo scientismo illuminista che cercava proprio nella ripetibilità del fenomeno, la via della Verità. E tale “rivoluzione” filosofica trova straordinaria conferma proprio in quella scienza dalla quale la “religiosità materialista” si aspettava il seppellimento dello spirito e della volontà metafisica nascosta tra le pieghe delle apparenze mondane.
La scoperta di enti, fisicamente tracciabili, che viaggiano a ritroso nel tempo, ha letteralmente scombussolato la teoria lineare alla quale la fisica classica ci aveva abituati. La possibilità di pervenire a risultati ugualmente percepibili, con teorie matematiche apparentemente contraddittorie, ha ulteriormente scombussolato i nessi di “causalità” a cui la fisica e la filosofia ordinaria ci avevano abituati. 

Per la stessa ragione la scoperta di una volontà che orienta, organizza e soprattutto finalizza il cosmo, al di la della sua apparenza caotica, ha fatto riscoprire il “divino” nell’umano, utilizzando proprio quei mezzi che un certo apparato materialista voleva distruggere.
Accidenti, si sono trovati a dire improvvisamente alcuni scienziati moderni come Bohm, Pauli o il nostro Fantappié, vuoi vedere che aveva ragione Lao Tzu, che aveva ragione Confucio, che aveva ragione…Gesù? E’ dura da digerire per l’orgoglio umano. 


Per questo la sensazione, anzi la riscoperta, di viaggiare in un universo che è formato dalla nostra stessa necessità di rappresentarlo in un certo modo, indipendentemente dalla capacità di modificarlo, ha fatto recuperare, con grande rispetto, quella metafisica da cui l’ateismo acefalo di tanti scienziati novecenteschi si era vigorosamente separato.
In questo crediamo che l’osmosi fra cultura occidentale ed orientale (purché condotta su basi filosofiche serie) sia stata particolarmente utile, ed abbia fatto vacillare sia un approccio esclusivamente devozionale alla religiosità, sia un certo ateismo di maniera.
Il tempo eterno che, nel cristianesimo, viene infranto dalla precipitazione del logos nella manifestazione, sconvolge e rifonda i ritmi dell’universo. La creazione continua non è più una follia mistica, ma ritrova la sua potenza filosofica e il raggiungimento dell’eterno (o della verità o dell’ineffabile Assoluto) non è più un’ascesi… per le vecchiette dell’oratorio, ma un teorema che trae le sue origini nei primordi della mitostoria dell’umanità.
Come tutti sanno la trasposizione del concetto del velo di Maya, in occidente è dovuto a Shopenhauer, che restò terribilmente affascinato dalle sue letture orientali e, staccandosi dalla sua formazione Kantiana, trasferì la potenza dell’illusione nel suo famoso testo “Il mondo come volontà di rappresentazione”. 

Ma senza entrare nelle modalità filosofiche con cui ormai migliaia di pensatori e scienziati si sono appropriati del concetto di Maya, ci piace ricordare come buona parte della filosofia Platonica (e quindi della filosofia che è all’origine del pensiero occidentale) si sia basata sul famoso mito della caverna. La proiezione delle ombre nel fondo della caverna nella quale gli uomini prigionieri immaginano la realtà, non è altro che Maya. L’uomo vive in tale caverna convinto della realtà di una manifestazione che non è altro che l’effetto della materia che si contrappone alla luce e che proietta, appunto, una immagine illusoria. In questa chiave tutta la filosofia mistica, e tutte le pratiche ascetiche o ermetico magiche, diffuse in tutta la terra, non fanno altro che invitare l’uomo a liberarsi dai veli dell’illusione e a guardare direttamente la luce. E’ il principio della majeutica socratica in cui il filosofo, quale “levatrice”, aiuta l’uomo a rinascere, liberandosi dalle sue illusioni.
Tutta la mitologia greca che, con la Diana Velata allude al principio iniziatico in cui la luce riflessa della Luna non è contemplabile da chiunque nella sua nuda bellezza, parla del primo livello, quello appunto “lunare” della conoscenza. Ed anche la Iside egizia ancor più ermeticamente, si propone velata, ed “armata” (si fa per dire) del magico sistro, immobile, bellissima, ieratica e irraggiungibile.
Superare questi veli sembra una sfida ed un premio, concessi solo all’eroe che saprà come fare. Ma mica è facile!! E’ nota, infatti, la brutta fine di tutti gli eroi che hanno cercato la “visione” senza la dovuta preparazione. E’ nota la sfida di Edipo alle sfingi, così come sono noti i faticosi percorsi di risalita dagli inferi di tutti coloro che, come Dante, sono andati a sfidare le ombre, le illusioni e il dolore, nel fondo della loro coscienza. 

C’è da dire che La Maya, nei suoi molteplici aspetti, è soprattutto Potenza (potenza creatrice e quindi può essere benefica o malefica). E’ essa stessa illusione e il liberato o l’illuminato, a seconda del filone tradizionale, supera ogni velo ed approda nella “beatitudine”, nel “vuoto”, nella “coscienza” nella consapevolezza sublime.
Ma non è facile liberarsi, togliere i veli della illusione. L’intemperante Giordano Bruno, dalle nostre parti, cercando d’imitare gli alchimisti del tempo (Lullo e Agrippa) descrisse nei suoi “eroici furori” un particolare metodo liberatorio. Ma, poco paziente, e soprattutto troppo violento, si creò un sacco di problemi con la società del tempo. Nessuno può dire se raggiunse il fuoco della coscienza ma purtroppo, un certo fuoco, lo travolse tragicamente a campo de Fiori. 

Qui, però, bisogna intendersi perché, così descritti gli stati della “realizzazione” suprema sembrano assai diversi fra loro ma, in realtà, si tratta solo di modalità espressive e di diversi livelli operativi. Ma racconta chiaramente Shankara, il grande filosofo delle ultime Upanishad, che liberarsi da un velo può essere tutt’altro che piacevole e, che assai spesso si preferisce sostituire un velo colorato con uno… ancora più colorato. In tal modo la fuga da Maya diventa un continuo inseguimento dello star bene, o, quanto meno, dello star meglio (in un’esorcizzazione continua delle paure e dei dolori). E si confonde il benessere con l’esser bene.
Il nostro Evola ne parlò abbondantemente nel suo trattato sullo yoga, in buona parte ispirato da Avalon (sir Woldroff) e fu uno dei primi, in occidente, a mostrare che ciò che normalmente viene considerato come un elemento apparentemente contrario alla conoscenza, fonte d’illusione e spesso anche di dolore, possa divenire, al contrario, il più potente veicolo di alterazione o sublimazione luminosa della coscienza, in grado di spezzare ogni luogo comune e ogni abitudine del pensiero che si annoda su se stesso. Ma gli stessi temi sono stati sapientemente trattiti da Guénon, Comaraswamy, Corbin ecc.. 

In fondo la Maya è figlia di Brahama e quindi, di per se si profila come un immenso coacervo di possibilità connesse alla manifestazione. Ne deriva che quello che viene di norma chiamato “manifestazione” non è né buono ne cattivo. Ma è un mezzo attraverso il quale la forma sensibile si riscatta dall’inganno. Usare l’inganno contro se stesso per superarlo, per abbracciarlo e travolgerlo è una caratteristica delle famose vie erotiche orientali (stupidamente tradotte con tantriche) e anche occidentali (presenti nella cabala e nell’ermetismo), nelle quali il limite dell’illusione viene continuamente sfidato, chiedendo a Kali (che è una delle più terribili manifestazioni della Potenza Cosmica) di “tagliare” la testa del praticante, affinché di lui rimanga solo il fuoco sublime del superamento d’ogni illusione. In occidente diremmo “che resti solo l’amore” ma, chissà perché, tale espressione nostrana sembra più riduttiva. 

C’è un particolare episodio che fa parte della tradizione cristiana e su cui il sottoscritto ed anche altri colleghi ed amici, fecero un interessante convegno molti anni or sono. E’ un episodio assai rappresentato e che ha come perno una delle danze velate più famose al mondo. La danzatrice si chiamava Salomé, i veli erano sapientemente sette, e la testa a saltare fu quella di Giovanni, ma le conseguenze, dal punto di vista della trasformazione della coscienza occidentale…furono inimmaginabili.
Quindi, cari amici del Silmarillon: stiamo attenti ai veli, ma soprattutto attenti alla testa.