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Numero 8



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Lettere aperte
 

Da che nasce l'urgenza del blog? Quali "codici" segue? Le sue radici affondano comunque nella scrittura su carta. Il filosofo Jacques Derrida sembra tracciare in anticipo, nella sua disamina del fenomeno epistolare, linee guida  che saranno estendibili anche al blog...


di Stefano Petruccioli e Simona Taborro

 

 

Un fenomeno rilevante degli ultimi anni è senz’altro quello del blog. Si cercherà qui di pensarlo attraverso delle prospettive filosofiche al fine di meglio comprenderne le ragioni tutt’altro che “eccezionali”, pur riconoscendone gli elementi originali e innovativi.

 

La gente non vuole essere ridescritta, ma presa sul serio: «il modo migliore per dare a qualcuno un dolore duraturo è proprio quello di umiliarlo facendogli apparire futili, obsolete e ininfluenti le cose che a lui sembravano le più importanti» (Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Bari, 1998, p. 109), e ridescrivere qualcuno, la sua situazione, il suo mondo, spesso significa umiliarlo, partendo dalla presunzione di parlare il vocabolario della verità, o quanto meno un linguaggio più adeguato, e sminuendo, quindi, le parole dell’altro.


Nel suo breve articolo Orfeo negro, Sartre tratta della poesia africana in lingua francese, e rileva proprio il fatto che uno degli elementi di assoggettamento da parte della Francia nelle sue colonie sia stata l’imposizione della propria lingua. Quindi, quale azione rivoluzionaria sul vocabolario dominante, sulle sue parole, «l’araldo negro, volendo defrancesizzarle, le frantumerà, spezzerà le loro abituali associazioni e le accoppierà con la violenza» (Jean-Paul Sartre, Orfeo negro, in Id., Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano, 1995, p. 388). Per costruire una propria verità, il poeta africano deve distruggere prima quella degli altri – come il leone delle tre metamorfosi nietzschiane (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2005, pp. 23-25) deve creare spazio prima che il fanciullo possa costruirci sopra e creare qualcosa – e tale distruzione non può non passare che per il linguaggio, che va messo in corto circuito, le cui parole vanno rese folli, offerte in olocausto.


Non è solo in condizioni di palese sottomissione che una simile rivolta linguistica ha luogo. «Ogni vita umana è un tentativo di rivestirsi delle proprie metafore» (Rorty, cit., p. 48) , ognuno cerca di costruire un proprio vocabolario decisivo con cui raccontare la propria storia, al passato e al futuro, con cui descriversi, narrarsi e perciò crearsi, non lasciandosi determinare dal linguaggio che gli altri ci hanno lasciato in eredità e ci propongono, tentando semmai di imprimere in esso una propria impronta, una propria traccia, anche piccola, perché «l’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi» (Jean-Paul Sartre, Santo Genet, commediante e martire, Il Saggiatore, Milano, 1972, p. 51). E al di là dell’inerme passività e della forza fisica, una risorsa per questo scopo è senz’altro quella linguistica.

 

La rete, e in particolare, oggi, i blog, sono un ambiente perfetto per realizzare questa necessaria ridescrizione di sé. Considerando una “democratizzazione” del genio, non facendo  cioè distinzione tra esso e la fantasia se non per il successo e il riconoscimento “sociale” di entrambe queste forme idiosincratiche, i blog rappresentano uno spazio altamente poetico, «una camera oscura dove le parole si urtano fra loro in giri folli. Collisione in aria: si accendono l’un l’altra dei loro incendi e cadono in fiamme» (Sartre, cit., p. 388).; sono il luogo adatto per elucubrazioni sfrenate e personali, fantasticherie, giochi, proliferazioni,  ricreazioni, per godersela in santa pace e nello stesso tempo dar vita a quelle metafore capaci non solo dire le stesse cose già dette da altri in forma ornata, ma di riconfigurare originalmente il nostro mondo (cfr. Paul Ricoeur, La metafora viva, Jaca Book, Milano, 2001).


La paura del poeta, del creatore in generale, è quella di perdere la propria diversità, egli teme di trovarsi ad essere soltanto una copia, una replica. Il suo desiderio, invece, è l’autonomia, egli vuole creare il gusto in base al quale essere giudicato, comprendere la propria vita in un linguaggio personale, essere libero dall’influenza altrui, di poeti “più forti”. Nei blog noi possiamo «concatenare e ridescrivere le nostre piccole cose importanti» (Rorty, cit., p. 145), possiamo – considerando «la storia del linguaggio, e perciò della cultura, come Darwin ci insegnò a considerare la storia di un banco di coralli» (ibid., p. 25) – utilizzare le vecchie metafore della lingua comune, pubblica, che costantemente e continuamente muoiono e diventano linguaggio letterale, prosa, come piattaforma e carburante per le nostre nuove metafore, per le nostre nuove poesie e creazioni. Descriversi nei propri termini è creare se stessi, realizzare chi si è realmente, che non significa affatto ciò che si è sempre stati, ma ciò che si è fatto di se stessi, ciò che si arriva ad essere, o meglio – poiché “arrivare” non è il termine giusto, dando l’idea di una meta predestinata – ciò che continuamente si diviene ridescrivendosi.


La scrittura in rete, nei blog, consente di non muoversi nel gioco linguistico che distingue tra fantasia e argomentazione, filosofia e letteratura, scrittura seria e scrittura scherzosa, nel gioco linguistico dominante, di non seguire le regole del vocabolario decisivo di qualcun altro. Questo non vuol dire essere irrazionali, perduti in un mondo di fantasia, ma vuol dire cercare di creare se stessi creando un proprio gioco linguistico, reagire all’autorità e alle descrizioni che questa dà o potrebbe dare di noi stessi, raggiungendo, invece, l’autonomia.

 

Vuol dire – come afferma Derrida in ambito filosofico, ma la metafora è estendibile in generale – rifiutarsi di portare in grembo un altro bambino di Socrate, essere un’altra appendice a Platone (Jacques Derrida, Carte postale, lettera dell’8 giugno 1977; tutte le citazioni da quest’opera sono traduzione nostra).

Il richiamo al filosofo francese, e a questa sua opera in particolare, non è casuale: molte sono infatti le affinità riscontrabili tra il suo testo, che pure è degli anni Settanta, e la scrittura di rete, nei blog.


Quest’opera di Derrida è una raccolta di lettere d’amore, scritte su cartoline, perciò appartiene allo stesso genere e presenta lo stesso tono dell’apostrofe che sono caratteristici dei diari on line, ed anche lo stesso carattere assolutamente personale, privato. O meglio, privato e pubblico insieme, e senza contraddizione: «ciò che mi piace delle cartoline è che anche se sono in una busta, sono fatte per circolare come una lettera aperta ma illeggibile» (ibid., lettera del 5 giugno 1977), scrive Derrida, e aggiunge, poi, «le nostre lettere sono aperte? Non so se questa ipotesi mi terrorizza o se ne ho bisogno» (ibid., lettera del 6 giugno 1977). Come le cartoline di Derrida, private eppure pubblicate, così i post dei blog sono scritture private che però vengono pubblicate. Scritture indiscrete, quasi indecenti e oscene.


Ancora, come le lettere di Derrida presuppongono una risposta dalla sua lettrice, così i post dei blog prevedono che una risposta, una partecipazione, un commento, debbano venire dai lettori. E così come nelle cartoline di questo testo non si ha la garanzia che firmatario e destinatario siano necessariamente sempre identici da una lettera all’altra, così come in esse il firmatario non va confuso con il mittente, né il destinatario col ricevente o il lettore, lo stesso vale per i blog, visto che in uno stesso spazio possono scrivere e “postare” persone diverse, per non parlare della varietà e fluidità dei lettori e commentatori.


Inoltre, ciò che Derrida apprezza di più delle cartoline, e cioè il fatto «che uno non sa cosa sta davanti e cosa sta dietro, qui o lì, vicino o lontano […], qual è il retro e quale il verso. Né cosa è più importante, l’immagine o il testo, l’intestazione o l’indirizzo» (lettera del 5 giugno 1977), può essere visto come paragonabile alla multimedialità tipica della rete ed anche dei blog, nei cui post è possibile trovare parti scritte, immagini, suoni, video, e in cui, in più, non è possibile stabilire una precedenza o priorità tra il corpo dei post ed il resto presente nel template, che può ancora presentare ulteriori scritture, immagini, suoni e video.


Continuando, nelle sue cartoline Derrida confessa l’urgenza che avverte nello scriverle, tanto che ne imbuca tre al giorno: «ho a malapena imbucato la precedente […] e mi ritrovo di nuovo qui a scriverti, mi ci ritrovo proprio per strada, mi ci ritrovo così spesso, incapace di aspettare – e lo faccio come un animale, anche contro un albero a volte» (ibid., lettera dell’8 giugno 1977). Ugualmente, i bloggers sembrano vivere la stessa impellenza, che porta la maggior parte di loro a pubblicare i propri post regolarmente, quotidianamente, se non più volte al giorno. Ed il filosofo riconosce anche il valore totalmente contingente di questi suoi scritti, ma tuttavia rivela anche il bisogno che ha di essi: «sai che non mi piace scriverti questi miseri frammenti, questi piccoli punti persi nel nostro immenso territorio che li fa sembrare così minuscoli, o persino immaginari; così piccoli come il puntino sulla “i”, un singolo puntino su una singola “i”, infinitamente piccolo in un libro infinitamente grande. Ma (posso a mala pena sopportare, sostenere questo pensiero con le parole) il giorno in cui non potrò più farlo, quando non potrò più mettere il puntino sulle mie “i”, mi crollerà il cielo in testa e la caduta sarà senza fine» (ibid.). Lo stesso vale per i “diaristi” della rete, i cui post e commenti saranno anche minimi e minuscoli segni persi nell’immensamente vasta rete, ma rappresentano comunque quelle tracce minuscole con cui essi possono –  come si diceva sopra – imprimere la propria individuale presenza e inscrivere le proprie personali metafore nel linguaggio e nel mondo in cui vivono. Infine, l’angoscia causata dall’urgenza e dal bisogno di scrivere a Derrida quando è impossibilitato a farlo – «durante i viaggi, in quei momenti in cui sono inaccessibile, tra due “indirizzi”, quando niente, con o senza fili, mi collega a qualcosa, a te, muoio d’ansia» (ibid., lettera del 9 giugno 1977) – è la stessa che colpisce i bloggers quando sono impossibilitati ad accedere alla rete.


In aggiunta, l’importanza e l’attenzione che Derrida riserva agli aspetti materiali e accidentali dei segni, in quest’opera – «hai notato che faccio sempre più strani errori, è la fatica o l’età, occasionalmente l’ortografia parte, una scrittura fonetica ritorna in forza, come alla scuola elementare, non mi capitava più da allora» (ibid., lettera dell’8 giugno 1977) come in tutte le sue altre, sono segno di una cura per la scrittura che è la stessa che i bloggers pongono nell’editare i propri post, scegliendo con attenzione il carattere, la dimensione, l’allineamento, il colore dei propri scritti, per ragioni estetiche e comunicative.


A Derrida, nelle sue opere,  interessa «sempre meno del sublime e dell’ineffabile e sempre più di riorganizzare i propri ricordi per farne qualcosa di bello, di fantasioso» (Rorty, cit., p. 160); allo stesso modo, ai bloggers non interessa tanto comporre sublime poesia, essere grandi scrittori, quanto ridescriversi con un proprio linguaggio, creare se stessi attraverso un proprio vocabolario, rimodellare il mondo secondo le proprie metafore.

 

A conclusione di questo breve percorso, speriamo sia emerso come l’urgenza, la pulsione, a ridescriversi non sia affatto nuova, ma anche come l’elemento democratizzante della rete, e del blog in particolare, la abbia resa più familiare.