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Numero 6



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Il logos e la fiaba



Per Platone la conoscenza fatica a procedere per trasmissione in quanto non è un possesso stabile. Ma ecco che il mito e la fiaba soccorrono il filosofo che vuole raccontare quella verità capace di sollevare il velo dell'ignoranza, tirando fuori l'uomo dalla caverna delle illusioni. Il segreto sta nella narrazione...

di Stefano Petruccioli
stefano_petruccioli@yahoo.it


«Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse fatta in modo da scorrere, se ci tocchiamo l’un l’altro, da chi di noi ne è più pieno a chi ne è più vuoto, così come nelle coppe l’acqua scorre attraverso il filo di lana, dalla più piena alla più vuota» (Simposio, 175 d). È dunque impossibile, secondo Platone, una trasmissione, un baratto di qualità tra un uomo e un altro. Ma, del resto, l’uomo è caratterizzato dall’inconsistenza della propria stessa natura, dalla mancanza di un’essenza stabile, dall’impossibilità di essere definito e descritto definitivamente, perché durante la propria esistenza cambia continuamente, costantemente (ibid. 207 d - 208 a). Non solo, dunque, non ci può essere una qualsiasi trasmissione o baratto, ma non c’è neanche un qualunque possesso: c’è, invece, il nulla che attraversa, come un brivido che sempre si rinnova, l’essere di ogni uomo. Anche la sapienza e tutte le conoscenze nascono e periscono, cambiano, non sono mai identiche, non sono, in definitiva, un possesso dell’uomo. La stessa sapienza di Socrate «vale poco, o addirittura è discutibile, simile ad un sogno» (ibid., 175 e).
Platone, quindi, non può contrapporre a un falso sapere altrui un proprio sistema certo di conoscenze, un proprio solido possesso, bensì solo presentare una consapevolezza precisa del nulla, un’inquietudine, una tensione.
Ma se non c’è un contenuto sapienziale posseduto e trasmissibile, insegnabile, se la conoscenza rimane, alla fine, inattingibile, cosa resta, allora, della filosofia? Che cos’è la filosofia?
Il personaggio di Parmenide, nell’omonimo dialogo platonico, dovendo discutere delle più fondamentali questioni dell’essere, afferma che, apprestandosi a questo arduo compito, si prepara a «giocare questo gioco laborioso» (Parmenide, 137 b). La discussione filosofica sarebbe, quindi, un “gioco laborioso”, un gioco serio, e il dialogo che segue a questa affermazione «avviene veramente in forma di un gioco di domande e risposte. […] Il ragionamento viene capovolto, e poi ancora e ancora una volta. L'argomento va su e giù come una spola, e la saggezza assume forma nel movimento di un nobile gioco» (Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino, 2002, p. 176). La filosofia è, dunque, un gioco, un esercizio, un «allenamento» (Parmenide, 135 d).
Quello che rimane è la filosofia come gioco vitale e inventivo, come divertente esercizio di cui i concetti della dialettica, eterogenei rispetto alla verità, incapaci di incatenarla e contenerla, sono gli strumenti inessenziali.
Se il dialogo filosofico non è un processo che arriva alla verità, esso è, però, una via propedeutica per il suo eventuale momentaneo accoglimento: «Senza questo procedere peregrinando attraverso tutte le vie, è impossibile, imbattendosi nella verità, averne intendimento» (ibid, 136 e). Nella verità, dunque, ci si “imbatte”: il verbo greco qui utilizzato è entunchàno, che presenta, al suo interno, un richiamo alla parola tùke, cioè “caso”, “fortuna”. Per imbattersi nella verità, per incontrarla, è necessario seguire un pensiero di tipo “peregrino”, pronto a ricominciare sempre dall’inizio i propri percorsi, una “ragione errabonda”, un «ragionamento illegittimo» (Timeo, 52 b), bastardo, non un ordinato percorso di deduzioni e argomentazioni, ma uno affidato ai suggerimenti dell’immaginazione, alla creatività della narrazione di favole.

Come Socrate afferma ragionando a proposito della natura dell’anima: «Definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa più umana e più breve. Questo sia dunque il modo del nostro discorso» (Fedro, 246 a). Delle realtà ultime, più vere, quindi, l’uomo può parlare solo secondo immagini, può esprimerle solamente con delle parole e con un pensiero obliqui ed indiretti, che procedono per ammiccamenti, solo attraverso il racconto di belle favole. La conoscenza di ciò che diviene, del cosmo, della storia e della vita, può avere solo la forma di una storia narrata.
Per fare filosofia serve, dunque, saper raccontare favole, miti; «serve un poeta e mitologo più austero e meno piacevole» (Repubblica, III, 398 a-b), certo, di quelli tradizionali, ma pur sempre un poeta e mitologo. «Se realmente non è utile agli dèi il falso, e lo è invece agli uomini come può esserlo un farmaco, è chiaro che l’uso di questo farmaco è riservato ai medici: non è cosa che competa a privati qualunque» (ibid., III, 389 b); allo stesso modo, narrare favole che siano utili compete al filosofo: poesia e favola accettabile è quella creata dal filosofo quando fa uso del mito, artificio indispensabile per parlare dell’essere, poiché la tecnica delle immagini, dei simboli, delle allegorie, la drammatizzazione che il mito introduce, sono ciò che permette di suggerirlo. «Rappresenta perciò un compito particolare il fatto che […] il modo mitico di narrare e la spiegazione teoretica […] siano tradotti in atto in un reciproco intreccio» (Hans Georg Gadamer, Studi platonici, 1, Marietti, Genova, 1998, p. 100). Mito e logos, favola e ragionamento, cioè, meritano un’uguale valutazione: né il mito è sottomesso al logos, né veicola una verità superiore che al logos risulta irraggiungibile (non si può propriamente parlare di un contenuto di verità maggiore del mito, di una sorta di irrazionalismo). Non c’è una subordinazione della favola al logos, essa non è un puro ornamento superfluo, ma esiste un intreccio saldo tra i due. «La capacità che hanno immagini e narrazioni di esporre uno stato di cose in maniera comprensiva e intuitiva, funge da contrappunto insostituibile all’analisi concettuale. A guardarlo in questo modo, il mito appare come una seconda via d’accesso alla realtà che, pur non potendo prescindere dal logos per quanto concerne il contenuto, presenta tuttavia nei suoi confronti un plus che non può essere sostituito in nessun altro modo» (Thomas A. Szlezák, Come leggere Platone, Rusconi, Milano, 1991, p. 143). Tra favola e logos esistono, dunque, dei nessi strutturali che non fanno della prima né un residuo di riflessione pre-filosofica, né una formulazione provvisoria, e neppure una forma di conoscenza di tipo mistico e quindi di carattere irrazionale. La mitologia, al contrario, è essa stessa una forma di logos, che si esprime mediante la favola, il racconto. Il mito, «ben lungi dall’essere un arbitrio, si fonda bene addentro nella natura dell’essere stesso e della conoscenza umana di questo essere» (Paul Friedländer, Platone, Bompiani, Milano, 2004, p. 237). Anche la narrazione di una favola è un pensiero, non è solo un rappresentare immagini ma è un pensare per immagini e raffigurazioni: è «un linguaggio di figure, che si organizza in un vero e proprio racconto analitico, che non port[a] alla certezza, ma che addirittura fond[a] un sapere dell’incertezza» (Franco Rella, Pensare per figure. Freud, Platone, Kafka, il postumano, Fazi Editore, Roma, 2004, p. 10), come si è visto.
Che «non si tratt[i] affatto di un momento razionale e discorsivo e di un momento soprarazionale, intuitivo, mistico, ma dello stesso processo razionale» (Francesco Adorno, Platone, Laterza, Bari, 2002, p. 12), che esista una profonda affinità tra favola e logos, è sottolineato esplicitamente dallo stesso Platone: «un bel discorso, che tu, credo, riterrai un mito, ma io un ragionamento» (Gorgia, 523 a); e ancora: «probabilmente, questo, a te sembra un mito, di quei miti che narrano le vecchie, e non t’invita a pensare» (ibid., 527 a). E sempre lo stesso Platone definisce i suoi scritti favole e miti: in essi, egli si svaga dilettandosi «con le parole, fantasticando discorsi» (Fedro, 276 e) e fa «un racconto a mo’ di fiaba» (La Repubblica, II, 376 d), espone «a parole, come una favola» (ibid., VI, 501 e) le sue meditazioni. Si deve riflettere con la ragione e meditare attraverso i miti: «meditare e favoleggiare» (Fedone, 61 e), una sinergia e armonica simbiosi, perché «logos e mito sono la “sistole” e la “diastole” del cuore del pensiero platonico» (Giovanni Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, BUR, Milano, 2004, p. 279). Così, le favole e i miti possono preludere come un gioco a un rigoroso e responsabile logos, possono guidare i sentieri in cui ci si imbatte nell’essere, nella verità, possono spostarsi al centro dell’opera e riempirla interamente come una fiaba raccontata che deve solo essere ascoltata, possono anche essere fonte di piacere letterario
Delle condizioni dei fondamenti non si può parlare che per immagini, narrativamente, descrittivamente e «solo ipoteticamente (miticamente) si può sostenere che le trame entro cui si articola e si svolge in unità il pensiero corrispondono alle stesse trame su cui in unità si articola il tutto, la “natura”» (Francesco Adorno, cit., p. 11). Questo rende necessarie le favole platoniche, e rende necessaria la loro molteplicità: non basta una sola favola.

L’esperienza della verità che si ha non garantisce un possesso del sapere, non riempie l’esistenza degli uomini. Sono, perciò, necessarie ulteriori ricerche e fatiche, ulteriori narrazioni e racconti; si deve continuare a giocare il “gioco laborioso” della filosofia. L’impossibilità di un possesso stabile del sapere, di una contemplazione continuativa della verità, la cui luce è, ad un tempo, illuminante ed accecante, «apre e limita al tempo stesso l'esercizio della dialettica» (Jacques Derrida, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano, 1985, p. 150) e della mitologia filosofiche, essendo condizione di un discorso non solo sempre obliquo ed indiretto, ma anche sempre incompiuto, da continuare.
Non potendo comunicare in maniera esplicita una qualche verità, non potendo, quindi, affrontare il problema della sapienza con una domanda diretta, ma dovendo narrare favole, il dialogo filosofico deve fondarsi su di una dialettica «sempre pronta a cominciare da qualsiasi domanda particolare: si può cominciare a parlare con qualsiasi parola» (Maurice Blanchot, L'infinito intrattenimento, Einaudi, Torino, 1977, p. 21), si può cominciare a raccontare in moltissimi modi.
A questa passione per la domanda, per la ricerca, per la narrazione, va unita una critica a tutto ciò che si è potuto acquisire in precedenza, poiché non ci si deve “affezionare” troppo ai significanti, che non sono lo specifico della comunicazione filosofica, non essendo in grado di rappresentare né di significare la verità, ma solo strumenti e giocattoli intercambiabili. Tutto ciò, fa sì che il dialogo filosofico sia, in linea teorica, un “infinito intrattenimento”, la cui finitezza concreta è imputabile solo a fattori esterni: nessuno dei parlanti, infatti, può arrogarsi il diritto all’ultima parola, alla favola finale e definitiva, poiché nessun detto può esaurire l’argomento che, più che trattare, si sta “frequentando” nell’esercizio dialettico e narrativo, nessun detto può esprimere in maniera definitiva la verità cui, tuttavia, sempre si allude. Se esistesse, questa parola definitiva segnerebbe la fine del conversare, del raccontare, dello stare in comune. Essendo tale parola assente, la filosofia rimane un gioco serio ed infinito. Le favole continuano a essere raccontate.