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Numero 6



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C'era una volta il suono





La fiaba non è solo racconto ma anche esperienza sonora. Il bambino ascolta la voce della madre che introduce uno spazio magico che somma ritmo e racconto. E in cui lei parla anche di sé e dei suoi moti interiori. Purtroppo nell'era moderna questo filo diretto e invisibile - come quello di Arianna - si sta spezzando...


di Seralisa Carbone
seralisa@hotmail.com


Le fiabe arrivano prima dei loro papà.
Sentiamo parlare dei fratelli Grimm solo in età scolare, quando ci viene comunicata la necessità di imparare a dare un nome alle cose e, iniziandoci al concetto di “proprietà”, la maestra ci insegna ad attribuire una paternità a Cappuccetto Rosso.
È il momento sacrale dell’ingresso definitivo della parola scritta nella nostra acerba coscienza culturale, quando una forma sconosciuta colonizza, fissa una nuova e irrinunciabile consapevolezza, un po’ come una sorta di verbo incarnato.
Perché si sa, in principio era il verbo, e tutte le fiabe cominciano il loro cammino sul sentiero dell’oralità, correndo sulla lunghezza d’onda del suono per prendere vita con la voce della mamma, la prima voce che racconta il mondo e lo traduce in ritmo, respiro, enfasi.
L’ascolto delle parole, il suono che sintetizza la voce materna in quella familiare musicalità che arresta il senso del tempo per catapultarci nello spazio-fiaba, rappresenta quello che potrebbe essere definito il nostro primo impatto con la coniugazione di forma e sostanza, il cui imprinting è così efficace da consentirci di reiterare questa piacevole esperienza con i nostri stessi figli, senza alcuna fatica. 

Se i molti studi sullo sviluppo del linguaggio hanno sottolineato l’importanza cruciale del condizionamento acustico nel bambino (durante il soggiorno uterino, galleggiamo cullati da suoni di acqua e parole lontane che sanno indicarci la direzione del benessere e, già nella prima settimana di vita, ogni neonato è capace di riconoscere la voce della propria mamma), non va dimenticato come l’uomo di tutti i tempi abbia insistito nel testimoniare la notevole affinità tra suono e percezione nella fase della crescita: nel pensiero platonico relativo al concetto di ethos, il suono, inteso sia come pratica vocale che strumentale, è considerato capace di agire sul carattere.
La voce materna che racconta è, del resto, il primo momento formativo di sensibile importanza per il bambino. La parola, espressa nella sua valenza acustica dalla lettura, diventa strumento evocativo per il piccolo ascoltatore, il cui processo cognitivo è basato soprattutto su associazione, interiorizzazione e imitazione. 

La funzione sonora della fiaba si fa carico di responsabilità etiche di grande rilievo nei primi anni di sviluppo, poiché, caratterizzando personaggi, luoghi ed eventi attraverso un uso modulato del tono vocale, la voce materna è in grado di regolare, indirizzare, calibrare la percezione del bene e del male. Una perfida strega, se “intonata” con grazia e dolcezza, può sedurre la simpatia del bambino che, ammaliato come Ulisse dal canto delle sirene, manca all’appuntamento con la portata esemplare della narrazione fiabesca.

«La voce della madre non gli parla solo di Cappuccetto Rosso o di Pollicino: gli parla di sé stessa così che il bambino è soprattutto interessato alla sostanza dell’espressione, alla voce materna, alle sue sfumature, ai volumi, le modulazioni, la sua musica che comunica tenerezza, che scioglie i nodi dell’inquietudine e fa svanire i fantasmi della paura…», scriveva Gianni Rodari nel 1971, quando la pubblicazione della Grammatica della fantasia aprì le porte a una maggiore sensibilità verso i condizionamenti di questo tipo di ascolto.
Il suono della fiaba, del linguaggio materno così vicino e rassicurante, inizia il bambino a un percorso di conoscenza, evocando sensazioni trasversali che agiscono sulla sfera emotiva (incanto, sorpresa, paura), sui cinque sensi (impressioni visive, tattili, olfattive, gustative) e sullo stesso rapporto madre-figlio, per il contatto intimo, epidermico, sensuale, che viene a stabilirsi nel momento del racconto. Un aspetto, quest’ultimo, che ha saputo colpire ancora una volta il Rodari della Grammatica: «Mentre il fiume tranquillo della storia scorre tra i due, il bambino può finalmente godersi la madre a suo agio, osservare il suo viso in tutti i particolari, studiarne gli occhi, la bocca, la pelle… Per ascoltare, ascolta; ma si permette volentieri di distrarsi dall’ascolto – per esempio se conosce già la fiaba - e quindi deve solo controllare che essa si svolga regolarmente.»
 
L’ascolto della fiaba realizza un autentico momento d’amore dello spirito – per trasmissione di conoscenza - e del corpo – per l’esaltazione dei sensi che ne consegue -, incastonato nell’esclusività del rapporto prezioso tra la madre e il suo piccolo. Un lusso di cui si gode da bambini e che, ormai adulti, possiamo rendere a nostra volta, traendone osmotico beneficio in un incanto senza tempo.

La luce ovattata di una lampada predispone gli occhi e avvia il raccoglimento, un silenzio carico di attesa precede il racconto della sera. Come un rituale, la fiaba della buonanotte ha il suo microclima.
E il suono della voce di mamma, che cullando racconta un’avventura sentita mille volte, ha un che di consolatorio, religioso, lenitivo, un’invocazione di pace che agisce da anestesia per l’inquietudine che non sa ancora addormentarsi da sola. 
Una fiaba ogni sera, una fiaba come una preghiera, prima di spegnere la luce. Un appuntamento che si fa rituale e veste la madre con i panni della sacerdotessa, custode di verità e meraviglia che intona le sfumature del bene e del male. 

I sensi si confondono, il respiro è più pesante, il dolce tono monocorde risuona. Non occorre aggiungere che vissero felici e contenti.
La voce lieve della buonanotte ha rassicurato chi, al caldo di morbide coperte rimboccate, sta già sognando un lieto fine.