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Numero 6



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Sogno a occhi aperti 







Cinema e fiaba condividono uno stesso destino: quello di proiettare"il pubblico" fuori della dimensione ordinaria. In questo senso,  film come L'estate di Kikujiro introducono un'atmosfera sospesa in cui, ancora oggi, la realtà sembra dissolversi ai confini di altri regni... 


di Fabio Fontana

Il cinema è il linguaggio dei sogni. Questa miracolosa invenzione è l'unica forma di trasmissione culturale in grado di coinvolgere tutti i nostri sensi a tal punto da trascinarli via - sull' onda emotiva dei fotogrammi che scorrono - in una dimensione temporale sconosciuta, non necessariamente meno autentica di quella in cui ci troviamo ad esistere, ma in ogni caso sempre imprevedibile, inedita. Infatti, frequentemente il grande cinema sa parlare della vita più e meglio della vita stessa. 

Il cinema è il linguaggio dei sogni, e dei sogni ad occhi aperti, perché quando ci sediamo di fronte allo schermo, impazienti che la proiezione abbia inizio, accettiamo consapevolmente l'"inganno" della narrazione. L'artificio del doppio binario su cui scorrono realtà e invenzione, incontrandosi magicamente nel buio ovattato della sala. Ed è proprio questa convergenza, che sembra si interrompa bruscamente con i titoli di coda, a non finire mai, lasciando echi duraturi di sé negli angoli più raccolti della nostra coscienza, regalandoci per i giorni a venire, anche per quelli più duri, un'immagine illuminante, una frase e, perché no?, un viatico comportamentale.
Spesso infatti al cinema ci si innamora delle proprie illusioni, si assorbe energia preziosa e rigenerante, si trae comunque spunto per la proiezione dei nostri io in carne e ossa nelle affollate platee della quotidianità.
Insomma, dentro e fuori dal cinema si impara. 

Perciò anche il cinema scadente, quello più indifendibile e cialtrone, potrebbe possedere un valore. Un racconto esiste perché esiste una comunità di ascoltatori, un linguaggio è tale in virtù del fatto che qualcuno lo sa decodificare. A maggior ragione nella nostra epoca della cultura non mediata, dell'immagine dittatoriale e pervasiva, in cui ogni cosa è frenetica, meccanizzabile, in un certo senso già data, forse soltanto la celluloide sa come raccontare storie e come farsi autenticamente capire.
La dimensione fiabesca è sempre stata una prerogativa dell'essere umano, a tutte le latitudini, in qualsiasi regione del pianeta, il “c'era una volta” porta con sé la certezza, o la speranza, del “ci sarà ancora”, la trasmissione simbolica del sapere si lega alla possibilità che un uditorio si riunisca nell'evento miracoloso dell'apprendimento. 

Gli esempi migliori, in tal senso, nascono quasi d'istinto, senza fronzoli o giri di parole aggiuntive, in semplicità assoluta.
Prendete una piccola fiaba moderna come L'estate di Kikujiro di Takeshi Kitano, un piccolo, splendido ritratto del viaggio impossibile compiuto da un malvivente da quattro soldi e da un bambino paffuto alla ricerca della madre di quest'ultimo attraverso la campagna giapponese.
Un'estate, un percorso di formazione per entrambi, tra minuscoli eventi, imponderabili ostacoli, giochi improvvisati sul crinale della propria inventiva, nel continuo contrapporsi di realtà e fantasia. E tutto intorno la quieta frenesia del paesaggio che muta, gli incontri che si susseguono, l'occhio paziente della telecamera che filma la loro storia e ce la offre in dono. E poi ci siamo noi, da qualche parte dispersi nel mondo, che stiamo assistendo alla proiezione, che fin dall'inizio abbiamo cominciato a riflettere, a giudicare, in una parola a crescere di pari passo con l'evoluzione della vicenda narrata. All'interno della nostra coscienza e un poco più oltre, avvinti alla forza inesausta del nostro sognarci. Proprio come accadeva migliaia di anni fa.