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Numero 5



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Professione reporter 




foto di Christopher Allbritten


Christopher Allbritten è un giornalista americano che vive in Libano, dove si occupa delle tensioni mediorientali. Ma scrivere sui giornali non è sufficiente, per lui. Per anni ha raccontato la guerra in Iraq usando anche la Rete. Il suo blog, Back to Iraq, ha appassionato i lettori che hanno deciso di finanziarlo...

di Francesca Pacini 



Al telefono Christopher Allbritten è estremamente cordiale. La sua voce ha un calore spontaneo. Spesso i reporter che scrivono anche sui blog "se la tirano" molto di meno di alcuni giornalisti della carta stampata. 
Christopher ora vive in Libano, da dove continua a lavorare come free-lance occupandosi dei conflitti mediorientali. Vanta collaborazioni importanti, come quelle con il New York Daily News, il Time Magazine e l'Associated Press. Quando, nel 2002, è arrivato in Iraq, si è accorto ben presto che gli strumenti di cui disponeva non erano sufficienti per raccontare una guerra che agli occhi del mondo rimaneva "televisiva". A lui interessava il quotidiano, ai dati preferiva la gente. Così ha aperto  un blog, Back to Iraq, che ha appassionato i lettori del tutto mondo. Non a caso, Christopher è il primo esempio di giornalista interamente finanziato dai suoi lettori. Malgrado il suo taccuino fittissimo, ci ha regalato questa intervista, forzatamente a distanza...


Chris, nel 2002 sei partito per l’Iraq. In seguito sei diventato un blogger sponsorizzato dai suoi lettori. Il tuo blog ha radunato fino a 35.000 lettori…

Non ho fatto reportage costanti dall’Iraq fino al maggio 2004. Feci il mio primo viaggio in Iraq (Kurdistan) nel luglio 2002, e ho iniziato un blog nel quale, come dici, raccolse 15.000 dollari con i quali sono andato in Iraq nel marzo-aprile 2003, durante l’invasione. I miei lettori, in realtà, erano anche più di 35.000, ai tempi della guerra ho avuto perfino 50.000 lettori al giorno. Da allora ho avuto una battuta d’arresto, comprensibile dato che oggi non rimango più in Iraq per lunghi periodi. La mia base ora è in Libano. Dall’Agosto 2006, che ha visto la fine della seconda guerra libanese, ho avuto anche 130.000 lettori al giorno.

Come internet e i blog hanno cambiato il giornalismo tradizionale? In un’intervista rlasciata a David Amsden hai detto che, non essendo riuscito a vendere tutte le tue storie, un giorno hai deciso di postarle. 

Be’, quello è stato nei primi giorni dopo il mio viaggio in Iraq. Da allora, sono diventato un free-lance che è anche un blogger. Nel periodo che va da settembre 2002 a maggio 2004 la mia copertura giornalistica dell’Iraq ruotava tutta intorno al blog, in una combinazione tra commenti e reportage. Ecco che allora i lettori mi hanno sostenuto economicamente, come abbiamo detto.
Attualmente invece scrivo in prevalenza per quotidiani e riviste, come ogni altro free-lace, tenendo a lato la mia attività sul blog. Questo fa di Back-to-Iraq-com – o B2I, come lo chiamo – un ponte fra la mia attività di giornalista freelance a New York e quella di corrispondente in Medio-Oriente.

Il tuo blog, Back to Iraq, è molto vicino ai lettori. Hai la prosa del narratore che seduce, che porta immediatamente al cuore dei conflitti non solo usando i grandi accadimenti, ma i micro-eventi quotidiani. Raccontare una guerra non significa solo riassumere le notizie sulle decisioni governative, le bombe, i morti…

Esattamente. Più che ai grandi fatti, alle notizie tipo: «e la colonna armata di soldati si spostava 200 km a nord», sono sempre stato interessato alle storie individuali dei soldati, dei civili, della gente comune… Le guerre sono faccende enormi, e sono molto violente. Penso che il fatto di porre l’accento solo sui grandi fatti li renda concetti astratti, un po’ come quando, oggi, leggiamo delle conquiste di Napoleone.

Non voglio che la guerra moderna, molto efficiente nell’assassinare numerose persone, sia presentata come un’astrazione. Bisogna far odorare alle persone l'ambiente, far vedere il sangue, sentire la paura. Forse la gente non sarebbe così pronta ad andare in guerra sapendo che ha a che fare con la carne, con le ossa, e non con un videogame.

Usare un blog rende I lettori partecipi. Possono postare i loro commenti, entrare in contatto con te. Come ha cambiato il tuo modo di fare giornalismo?

Il feedback immediato è una gran cosa, anche quando è negativo. Crea un’intimità fra lo scrittore e il lettore, intimità che non esiste nel caso dei giornali, che spesso usano un tono ufficiale. Fa anche in modo che lo stile di scrittura emerga con efficacia, e sia apprezzato dai lettori. E poi i commenti – e le riposte del blogger – creano una connessione personale mai raggiungibile dai quotidiani. Durante l’invasione del 2003, molti dei miei lettori non leggevano B2I per avere notizie sulla guerra, ma perché erano preoccupati per me. Così hanno in qualche modo dovuto sperimentare la guerra, così come facevo io. Ecco, penso li abbia aiutati a capire la guerra meglio di quanto abbiano fatto le vette olimpiche del New York Times.


Essere un giornalista in tempo di guerra non è facile. Essere un giornalista straniero in Medio-Oriente ti ha mai procurato guai? Come sono i tuoi rapporti con la gente comune e con i soldati? 

Non ho avuto molte difficoltà in Libano. La tradizione dei corrispondenti che vivono e lavorano fra i libanesi di Beirut è molto comune. Sono stanchi di noi.
Ma in Iraq era – ed è – molto pericoloso. Sia gli iracheni anziani che i soldati americani diffidano di noi, per una serie di ragioni. Gli iracheni ci vedono spesso come opportunisti che reclamano il racconto delle loro storie senza che nulla cambi per loro. Spesso dopo una bomba esplosa in un’automobile, la gente  si riunisce, va dal giornalista, se la prende con lui… È una logica bizantina, ma credo funzioni così: sono affamati e spaventati da ciò che è accaduto nella loro terra con l'arrivo degli Americani. I giornalisti che si presentano lì sono gli unici occidentali nei dintorni, diventando così i bersagli della furia della gente.
Dall’altra parte, i soldati diffidano di noi perché spesso siamo visti come liberali che non supportano la guerra. La lamentela più comune che ho ascoltato quando ero là era che I “media” – come se si trattasse di una entità singola – non riportavano “le buone notizie” irachene,
Detto questo, ho avuto buoni e cattivi rapporti soldati e i loro media. 

Il giornalismo indipendente. E’ possible dire la verità in un mondo   governato da pressioni economiche e politiche? 

Sicuramente. Altrimenti perché farei quello che faccio se pensassi che  non è possibile dire la verità? Sappiamo che questa pressione esiste, fa  parte della vita. Nulla esiste nel vuoto e fare il reporter significa sapere ché  parte del nostro mestiere gestire le pressioni di editori, direttori, inserzionisti, ecc. Il blog mi ha allontanato da alcune di queste pressioni, ma al posto di queste pressioni è arrivata quella dei miei lettori. Non si potrà mai compiacere chiunque. 


Ora vivi in Libano. Un altro paese disperato, sempre in conflitto da molto tempo. Cosa ti suggerisce la tua vita quotidiana là sui conflitti mediorientali? 

Mi suggerisce il fatto che la democrazia occidentale avrà un periodo molto difficile in medio-Oriente. La società araba tende ancora a dar valore all’unità piuttosto che a differenti opinioni, requisito essenziale della democrazia. Gli arabi si sentono costantemente minacciati dall’”Occidente”.
E questo non per dire che NON sono minacciati. Hanno il petrolio, la risorsa strategica che fa marciare l’economia. In più, il ruolo dell’Islam e della sua religione non può essere sottovalutato. Nei paesi occidentali la Cristianità interviene se un dibattito lo richiede – come nel caso dell’aborto negli Stati Uniti. Altre volte non rappresenta un fattore determinante. 

Ma in Medio Oriente, l’Islam è sempre in causa perchè è parte integrante della vita; è difficile immaginare una democrazia non islamica in Medio Oriente. E non sono completamente sicuro che l’Islam e lo stile occidentale della nostra democrazia riescano a mescolarsi bene perché gran parte della vita quotidiana è considerate nelle mani di Dio. (Il Libano è un’eccezione, ma solo perché non c’è una setta che abbia la maggioranza. Le cose sarebbero diverse se fosse uno stato a maggioranza sannita, ad esempio. Ha avuto una democrazia riconoscibile a un occhio occidentale per un po’ di tempo, ma è sempre sotto la minaccia di Hezbollah).

Grazie mille, Chris. 

http://www.back-to-iraq.com/
http://www.flickr.com/photos/baghdadchris/
http://www.lightstalkers.org/christopherallbritton
La Stampa: il meglio del web
http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,1083936,00.html