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Numero 5



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Una donna 




La ricerca del significato profondo della vita. Un viaggio unico fra confusione, delusione, bombe al napalm, morti. Un ricordo di Oriana Fallaci ai tempi di Niente e così sia, uno dei suoi reportage più affilati in cui la giornalista scrive la storia – come diceva lei – nel momento in cui questa "accade"…

di Arianna d’Errico


«Sai, quando rileggo i quaderni dove scrivevo il mio disagio mi prende un assorto stupore. Sono quaderni neri, con le pagine a righe o a quadretti, e la calligrafia che li riempie è una calligrafia che non mi appartiene: fitta, precisa, studiata. Perfino se riferisco le cose più atroci, incredibili. Ma dove trovavo la forza di sopportare da sola quella imposizione di angoscia, orrore, disagi? Giorno per giorno, settimana per settimana, senza tregua, senza respiro? A volte mi chiedo se non navigassi in una specie di follia. Allo stesso modo e alla stessa misura di tutti, del resto. Hai mai pensato che la guerra è un manicomio, che alla guerra si è pazzi? Un uomo e una donna normali, dimmi, come fanno a svegliarsi la mattina sapendo che fra un'ora o un minuto possono non esserci più? Come fanno a camminare fra mucchi di cadaveri decomposti e poi sedersi a tavola o mangiare tranquillamente un panino? Come fanno a sfidare rischi da incubo e poi vergognarsi di un momento di panico?»



Questo brano è stato scritto da Oriana nel secondo viaggio che compì fra il 1967 e il 1968 in Vietnam, prima dell’offensiva del Tet e l’assedio di Saigon. Mentre scriveva la battaglia infuriava a Huè e l’assedio stringeva Khe San in una morsa. Era il momento nel quale si interrogava su cosa fosse la morte e cosa fosse la vita, soprattutto cosa significasse essere uomini. La guerra, allora come oggi, trascina dietro di sé morti e domande.
«La notte li sento scavare.... Dio sono stanco ed ero così fiero. Mi avevano detto che servo la pace. Ma perché tocca a me, proprio a me, difender la pace? Sotto terra, quando fossi già morto, mentre a casa essi inventano leggi per farmi morire?»
Cosa provava quel marine che scrisse una poesia per nessuno? Versi per non essere dimenticati, per gridare: mentre scrivo ancora vivo. Chissà se solo chi la guerra l’ha vissuta può davvero capire la sensazione di quel trovarsi in bilico fra vita e morte, l’esitazione dell’attimo in cui esisti, sogni e contro ogni logica ancora progetti la felicità e l’istante immediatamente successivo nel quale di te non rimangono altro che pezzetti di corpo sparsi sulla terra bruciata da una bomba al napalm. Si dice che chi è nato durante un periodo di guerra non ci faccia più caso perché non sa che esiste la pace: pace è solo una parola vuota sospesa fra due battute di terra e di cielo: «tutto mi lascia indifferente, freddo. La guerra io la guardo senza condanna, la guardo come un temporale perpetuo e contro il quale non si può fare nulla. O se preferisce, come un esquimese guarda la neve: l’elemento naturale in cui vivere». 

Oriana è partita alla guerra e nel suo diario descrive la rivelazione dell’essere vivi, dà voce all’animo del soldato che la paura prova a scacciarla, a schiacciarla, a non averne troppa, perché, mentre spari, il tuo unico scopo è uccidere e cercare di non essere uccisi, e in un mese anche se vivi «si muore cento milioni di volte». 
«La guerra non è nulla di glorioso o eccitante, è solo una sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere».
Veniamo tutti dallo stesso ventre, ci siamo nutriti degli stessi umori, solo il colore della pelle e l’ideologia in nome della quale si combatte è diversa, e tuttavia in guerra preghi sempre una vergognosa preghiera; per ogni uomo che cade si sente un sollievo, anzi una gioia, la gioia che un altro è caduto al posto tuo e non importa se uomo o donna, vecchio o giovane, persino se è un bambino che cade, perfino.
E ciononostante «nemmeno la guerra riesce a cancellare il glorioso dolore di essere uomo».
Il marine che scrive l’epitaffio per la sua tomba, il diario di un vietcong catapultato sul Risiko del Vietnam che vorrebbe soltanto continuare a vivere e amare: «Tuyet Lan, cuore mio. Io lo so che non vuoi udire da me parole di odio, ma come è possibile non sentire odio? Io lo so che tu credi nel perdono, ma come è possibile inchinarsi al perdono?» 
Non ci sono perdenti o vincenti in guerra, tutti indistintamente, soffrono. Perché proprio questa fra altre guerre che imperversavano sul pianeta? 
Anche altrove il mondo bruciava e gli uomini ammazzavano gli uomini in nome di un dovere o di un sogno, ma si diceva Vietnam per dire guerra, il Vietnam era diventato il simbolo di tutte le guerre e tuttavia non era entrato nella comprensione degli occidentali. 
Un po’ come oggi. 
Nel Vietnam si combatteva per nulla e sul nulla come una collina 1383 che costò migliaia di vite o un boschetto nel quale non v’era nulla da essere conquistato o perso. «Perché ci hanno mandato qui? per fermare il comunismo. Ma il comunismo non si ferma con le pallottole, e un’idea non si uccide uccidendo un corpo». 

Mutano i nomi, i luoghi, gli eventi temporali. Cambia il modo di fare la politica, di progettare l’egemonia di una supremazia, si sostituisce il nome di una dottrina. Accanto alle missioni di guerra, compaiono quelle di pace. 
La notizia corre veloce, si è sempre aggiornati sul Medio Oriente, esiste il potere di manifestare senza correre il rischio di essere bastonati; possiamo urlare: noi non siamo d’accordo. 
Gli anni del Vietnam erano quelli in cui l’uomo stava per sbarcare sulla Luna, oggi sono quelli in cui aspiriamo a soggiornare con pacchetto esclusivo su Marte navicella 5 stelle, bagno caldo nei crateri incluso. 
I telegiornali, il web, la carta stampata, gli approfondimenti, gli speciali, i dossier, ci bombardano delle immagini atroci, sporche della guerra in Iraq: ma stranamente le guardiamo ci indigniamo, magari ci chiediamo anche se Dio o Allah o Budda davvero esistono e poi ci concentriamo su un altro servizio.  
«Quando scoppiò la guerra in Israele, mi faceva uno strano effetto leggere i vostri giornali. Non capivo perché se la pigliassero tanto. Per me Israele era un paese che tornava alla normalità, cioè alla guerra». 

Le storie si ripetono in un ciclo continuo, una ruota che gira dalla quale non esiste ancora il modo di scendere, o forse non ne vale la pena. 
Troppo spesso dimentichiamo che su quel Risiko si muovono pedine vere, che per ognuna di quelle pedine che cade c’è una vita che si spezza.
«La vita è una cosa da riempire bene, senza perdere tempo. Anche se a riempirla bene si rompe».
«E quando è rotta?»
«Non serve più a niente. Niente e così sia».