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Numero 3



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Autunnale
cielo  del Nord









L’opera di Nick Drake è una storia breve e folgorante, permeata costantemente da un velo malinconico che fu sempre elemento imprescindibile della sua poetica, tanto nella scrittura dei testi delle sue canzoni quanto nella realizzazione delle musiche e degli arrangiamenti.

di Fabio Zaccaria

Tutta la sua produzione discografica è costituita da soli tre album, usciti fra il 1970 e il 1972, più due uscite postume in cui l’artista ha lasciato testimonianza delle ultime evoluzioni musicali, incise su nastri rimasti nell’oblio per decenni. Una generazione di nuovi musicisti ha cominciato ad accorgersi della grandezza ed espressività dei brani di questo artista, dopo che per anni la sue canzoni avevano riposato nell’indifferenza più totale.
È la triste storia di una mancata affermazione, affogata nell’indifferenza di un mercato musicale in pieno fermento, quello della fine degli anni Sessanta in Inghilterra, che volgeva lo sguardo verso la riscoperta delle radici folk, con l’affermazione di grandi band e solisti quali Fairport Convention, Donovan, e l’astro di Bob Dylan oltreoceano.

L’infanzia dell’artista trascorre spensierata e senza traumi, nulla in cui cercare le ragioni di futuri turbamenti. Amato dai genitori e dai compagni, mite e socievole nonché eccellente atleta, Nicholas Rodney Drake, nato a Rangoon (Birmania) nel 1948, si distingue ben presto, dopo una breve fase di apprendistato in cui si era cimentato con altri strumenti, come abilissimo chitarrista acustico. Le composizioni dei genitori, entrambi musicisti anche se non di professione, influenzarono probabilmente il suo modo di scrivere musica, in particolar modo quelle della madre Molly Drake.
La sua storia inizia con la necessità e la consapevolezza di dover esprimere i suoi moti interiori attraverso testi, accordi, arrangiamenti. Sente il bisogno di mettere a nudo le zone d’ombra che agitano il suo essere, che pure dietro la mitezza e l’apparente benessere si muovono costanti e opprimenti.

Tutto questo non darà vita a un’arte sofferta, lacerante, urlata, ma anzi la particolare cifra stilistica di Drake sarà costituita sempre dall’eleganza, dalla raffinatezza, unite a una malinconica delicatezza dei suoi testi che sempre tra le righe celano inquietudini, rimpianti, desideri.
Fin dal primo Five leaves left del 1969, frutto già maturo della sua precoce creatività, le immagini dipinte sembrano, anche quando puntellate da arrangiamenti briosi e leggiadri, minacciate da un sottile e costante grigiore: Quando l'uccello è volato via / Quando il gioco è stato giocato / Hai calciato la palla attraverso il cortile / Hai perso molto più in fretta di quanto avresti pensato (When the day is done). Così come troviamo parole che sembrano prevedere il futuro tragico destino: La fama non è che un albero da frutto / Così malsano / Non può mai fiorire / Finché il tronco resta nella terra / Così gli uomini di fama / Non possono mai trovare una strada / Fino a quando tanto tempo non è trascorso / Dal giorno della loro morte (Fruit tree). È il canto dell’“uomo nella baracca” (Man in a shed), chiuso nella sua creatività dalla quale getta uno sguardo prensile su ciò che lo circonda.

Un marchio essenziale della sua produzione musicale risiede nell’approccio allo strumento, in quell’arpeggio cristallino su accenti spostati, dove ogni nota ha il giusto peso, che rende magiche anche le sole sessioni voce/chitarra, senza dimenticare il costante uso di accordature aperte, quasi sempre differenti per ogni brano.
Nonostante la perizia tecnica e la bellezza assoluta dei brani, il primo lavoro fu un palese insuccesso commerciale, ignorato dal pubblico e apprezzato esclusivamente dalla critica più lungimirante e da una stretta cerchia di fan che videro in Drake un personaggio di culto. Il carattere introverso, la timidezza e la riservatezza proprie della sua personalità di certo contribuirono a limitare la sua affermazione, rendendolo inadatto a quella macchina commerciale che prevedeva quali tappe obbligate interviste, tour promozionali, esibizioni dal vivo. Esibizioni che spesso si consumavano nell’indifferenza più generale, all’interno di locali in cui il vociare sovrastava la sua voce sommessa e ritmata in sillabe lunghissime, con interminabili pause tra un brano e l’altro per cambiare l’accordatura della sua chitarra che andava adattata ai vari pezzi da eseguire. Curioso notare, tuttavia, che in quegli anni il genere folk (se è lecito limitare l’opera di Drake a questo campo musicale) godeva di un’attenzione non certo minima, soprattutto da parte del pubblico.

Con l’album Bryter Lyter, del 1970, l’evoluzione si compie definitivamente, tanta è la bellezza e la perfezione delle composizioni e degli arrangiamenti, arricchiti da una maggiore varietà stilistica che si apre ad influenze jazz e, a tratti, gospel (Poor boy). Anche nelle composizioni più ariose (Northern Sky), la malinconia è un sottofondo permanente, sorta di “nota pedale” dell’animo dell’artista. La natura in cui viveva immerso, nella casa dei parenti a sud di Birmingham, sembra traspirare dai brani del disco, reinterpretata dal filtro della personalità di Drake che riesce ad infonderle una dimensione intima, ma sempre “autunnale” nei colori e nelle atmosfere.
La malinconia che pervade i suoi testi e le sue musiche spesso si tramuta in un librarsi al di sopra, in un emozionante innalzamento profondamente evocativo che riesce a raggiungere vette poetiche altissime, senza mai sconfinare nel patetico, caratteristica esclusiva dei grandi temperamenti artistici. Non ho mai provato / una magia folle come questa / Non ho mai visto lune che conoscessero / il significato del mare / Né trattenuto un'emozione / nel palmo della mia mano / O provato dolci brezze sulla cima di un albero / Ma ora che sei qui / Ravviva ogni cosa mio cielo del nord!, ascoltiamo in Northern sky, uno dei brani che meglio sintetizzano la bellezza dell’album.
Ogni sua canzone sembra pervasa da una potente fragilità, un castello di carte leggero nella sua struttura ma sorretto da una fede incrollabile nell’espressione di sentimenti ed emozioni con cui raggiungere il cuore delle persone.

I segni della battaglia interiore combattuta dall’artista cominciano a farsi sempre più profondi, il secondo clamoroso insuccesso discografico lo fa sprofondare in una depressione il cui unico palliativo sarà costituito dal Triptizol, un potente antidepressivo del quale presto inizierà ad abusare.
L’ultimo capitolo della sua discografia vede la luce nel 1972, dopo due sole notti di lavoro. Pink moon segna il totale abbattimento di ogni diaframma fra sé e l’ascoltatore, ha il sapore di un’intima confessione quasi esclusivamente per voce e chitarra, in cui vive il riflesso delle delusioni, di aspirazioni frustrate e di incomprensioni mai sopite. Emblematica in tal senso sembra essere la brevissima Know: Sappiate che vi amo / Sappiate che non mi importa / Sappiate che vi vedo / Sappiate che non sono lì, accompagnata da un ipnotico e monotono riff di chitarra colorato di blues. Una fase in cui la delicatezza e la dolcezza sono spesso sovrastati dall’amarezza, con lo spettro del fallimento in costante e opprimente attesa. In Pink Moon ogni nota e ogni parola assume un peso determinante, è un’opera scarna, sintetica ed enigmatica, in cui si avverte una geometrica razionalità unita alla lucida consapevolezza di una condizione immutabile.

Ancora ascoltiamo parole di sconforto, emblematiche di uno stato interiore privo di punti di riferimento: Ed ero verde, più verde della collina / Dove crescevano i fiori / e il sole brillava ancora / Adesso sono più scuro del mare più profondo / Fatemi passare, datemi un posto in cui stare (Place to be). Una ricerca il cui obiettivo è sempre meno definito, sempre più sfocato e lontano, annebbiato dagli insuccessi che accumulati negli anni rappresenteranno per l’animo dell’artista qualcosa di insormontabile, che finirà per sopraffarlo. Sono parole che lasciano intravedere la fine di un viaggio, la consapevolezza di un esaurimento di energie, di possibilità, di volontà. La speranza di una prossima serenità non sembra più avere spazio. Troppo forte il contrasto tra la considerazione di sé e delle proprie capacità espressive e il muro di non comunicazione che si ergeva di fronte all’artista, probabilmente colpevole solo di aver dato vita a un’arte senza tempo, classica nell’accezione più ampia del termine.
Sarà l’ultimo episodio di una lotta interiore, non per questo meno epica di tante altre più famose e urlate, che lo porterà all’abbandono totale della scena musicale, in una sorta di auto-esilio intervallato da crisi nervose e da sporadiche incisioni casalinghe, ultime perle di un astro destinato a spegnersi definitivamente il 26 novembre 1974, stroncato da una dose eccessiva di antidepressivi.