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Numero 3



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La Melanconia di Dürer







La famosa incisione nasconde un percorso ermetico-alchemico sul quale hanno dibattuto numerosi studiosi. 
E tuttavia si rimane affascinanti anche guardandola con occhio "profano" perché quell'immagine ci racconta i sentieri dell'uomo che, impegnato nella ricerca di sé, non può sottrarsi allo scavo interiore...

di Claudio Lanzi

 

Albrecht Dürer era un genio, talmente apprezzato durante la sua vita e dopo la sua morte che Erasmo da Rotterdam arrivò a dire che era superiore al mitico Apelle greco, in quanto, con l’uso della penna e dell’incisione evocava il colore più di quanto non lo avesse mai fatto alcun altro artista. Forse Erasmo era un po’ di parte anche perché compromesso con la riforma Luterana, ma è indubbio che Dürer sia stato un vero genio dell’incisione e anche un grande pittore sia nella tecnica ad olio che ad acquarello, un vero anticipatore.

Fu forse uno dei primi a comporre paesaggi privi di personaggi che sembrano usciti dalle tavole degli impressionisti, che vedremo quattro secoli dopo. Abbiamo moltissimi autoritratti da cui appare evidente che fosse un uomo decisamente affascinante e forse anche… un tantino narcisista.

Dürer, oltre che con Erasmo, venne a contatto con tutto quel mondo rinascimentale, soprattutto italiano, dedito alla ricerca delle allegorie, del simbolismo e delle chiavi di lettura dell’alchimia. Sicuramente conobbe l’accademia Ficiniana e la teoria delle “complexioni” e conobbe anche i testi dell’ineffabile Agrippa, il filosofo-ermetista-cabalista che influenzerà il pensiero “esoterico” di tutti i secoli successivi.

Ma la Melanconia di Dürer è un opera che ha avuto una lunga gestazione, con tanti studi preliminari dedicati alle complessioni, appunto, ai caratteri, secondo le indicazioni della medicina d’ascendenza paracelsiana. Quella che compare nell’immagine più famosa ha fatto discutere schiere di simbolisti (a partire da quelli del Warburg Institute) ma qui ci soffermeremo solo su alcuni particolari.

Il primo è quello meno studiato. Stiamo parlando dell’enigmatico poliedro che compare a lato della figura centrale. Quel furbacchione di Dürer ha nascosto dietro un lavoro prospettico geniale, in cui ha impegnato tutta la sua abilità, un oggetto simbolicamente strategico.
La soluzione completa dell’enigma (che non è solo geometrica), per chi fosse interessato all’argomento, può trovarsi nel testo citato a fine articolo. Si tratta di un esaedro (una pietra cubica, per intenderci), simbolo alchimico della terra, anzi della prima materia secondo la consuetudine alchimica ordinaria (anche se molti studiosi hanno valutato trattarsi di un romboide). Comunque sia, il Dürer allude alla materia prima (perfetta o imperfetta che sia) su cui è indispensabile lavorare ulteriormente e alcuni ritengono che aver rappresentato un romboide anziché un cubo possa essere una ulteriore sfida per l’essere malinconico che dovrebbe lavorarla. La terra appunto, chiamata a volte il sale dei filosofi. Però, attraverso dei sapienti, anzi oseremmo dire filosofici, tagli su due degli spigoli del solido, Dürer ha reso tale poliedro volutamente irriconoscibile. Ed ha fatto sì che, da una posizione di equilibrio stabile, come sarebbe stata quella della pietra cubica, si passi ad una posizione abbastanza instabile, dove una base d’appoggio triangolare offre assai minori garanzie d’equilibrio. Tutto, nella incisione di Dürer, è sospeso nello spazio e nel tempo, è in posizione di equilibrio instabile, è contrapposto fra due stati dell’essere, fra due possibilità.

Il personaggio malinconico in primo piano, probabilmente non sa come fare per dare un senso alla sua esistenza e lavorare su quell’oggetto così strampalato che rappresenta la sua stessa natura. In terra ci sono tutti gli strumenti necessari ma, a quanto pare, con lo sguardo perso nel vuoto, non riesce a trovare l’energia e la giusta intuizione per usarli.

In tutto il medioevo, e in buona parte del rinascimento, quella delle complessioni, delle loro corrispondenze planetarie e delle terapie adatte a correggere gli eccessi di una complessione o di un’altra, era stata una teoria oggetto di numerosissimi trattati che avevano stimolato le migliori menti di quei tempi. Teniamo presente che buona parte delle caratteristiche psicosomatiche, definite dagli antichi medici-alchimisti rinascimentali, è rimasta pressoché immutata anche nella nostra moderna psicologia. 

Agrippa ed altri ermetisti, ispirati dal neoplatonismo della scuola ficiniana, prevedevano vari stati melanconici, anche se non tutti si trovavano d’accordo su quale tipo di melanconia fosse in grado di essere foriera d’intuizione folgorante, di superamento della fase di stallo, abulica e a volte disperata, che contraddistingue lo stato d’animo di colui che cerca sé stesso.

Molti, fra i critici che hanno studiato questa celebre incisione, hanno perciò pensato che il termine “Melanconia I” indicasse solo un primo stato malinconico, al quale dovessero seguire necessariamente una “melanconia II”, operativa e piena di speranza e una “melanconia III”, realizzativa, illuminativa. Ma molti altri autori (tra i quali Saxl e Panofsky) celebri studiosi del simbolismo rinascimentale, propendono per l’ipotesi che nell’opera sia celato l’intero percorso ermetico.

Infatti fu proprio Ficino, grande traduttore e conoscitore di Platone e di Plotino, il principale propugnatore dello stato saturnio come foriero di grandi imprese. Dice infatti: Raramente Saturno significa caratteri e destini comuni degli uomini; più spesso indica uomini assai diversi dagli altri, divini o brutali, felici oppure affetti da estrema infelicità. Tale dicotomia la ritroviamo efficacemente espressa in quel pugno chiuso, sul quale poggia la guancia della Melanconia che non indica certamente abbandono dell’impresa ma impegno e ostinazione, al di là dell’apparente spossatezza. È sempre Ficino a dirci che: La bile nera (cioè la complessione malinconica) obbliga il pensiero a penetrare e ad esplorare il centro dei suoi oggetti, poiché la bile nera è essa stessa simile al centro della Terra. Parimenti essa solleva il pensiero alla comprensione delle cose più elevate poiché corrisponde al più alto dei pianeti.

Molti degli oggetti presenti nell’opera hanno fatto raffrontare la Melanconia a varie raffigurazioni della Geometria. La Geometria è, secondo Platone, l’arte per eccellenza, l’unica che consentiva l’ammissione alla sua accademia. Coordinatrice occulta delle Muse e delle Grazie, essa è l’Arte del Demiurgo, creatore e misuratore dell’universo, ma anche del filosofo, che, per omologia, si industria a trovare la misura e il raffronto tra le manifestazioni della natura.

Una delle raffigurazioni più note, al tempo di Dürer, era la Margarita filosofica di Gregor Reisch. Ma in tale opera, in cui ritroviamo buona parte degli attrezzi presenti nell’incisione di Dürer, esiste una attività fervida. Tutto viene utilizzato alacremente e non abbandonato a sé stesso. Per questo la Melanconia I sembra invece essere piombata nello stadio dell’akedia che prelude l’insuccesso, la disfatta e non la gloria. La stessa cometa che si tuffa nel mare, il cane affamato e malinconico, lo stato d’usura della mola su cui è seduto il puttino alato, la consumazione del compasso, e tanti altri particolari, ci fanno intuire una pesante fase di stallo, foriera di tragedia.

Ma alcuni elementi contraddicono tutto ciò. Ad esempio il puttino alato (alato e quindi dotato della capacità di volare come il personaggio principale), che scribacchia attivamente con uno stilo (lo stesso dell’incisore), quasi svincolato dalla mente melanconica che si è arenata su sé stessa. La clessidra, emblema del Saturno-Crono, che annuncia come sia trascorsa solo una metà del tempo, vicina al quadrato di Giove, benaugurale, foriero di successo.

Un ulteriore piccolo suggerimento ci può venire dallo stesso Dürer che, in uno dei suoi tanti scritti, suggerisce come solo la potenza dell’arte poteva liberare gli uomini dall’abulia e dalla falsità (e in questo ci ricorda il Giordano Bruno degli Eroici Furori). La Melanconia di Dürer è perciò una melanconia geometrica (Klibansky), una Melanconia artificiale, operativa, un vero e proprio colpo di genio colto nella sua drammaticità, nella terribile vacatio animae, quando arte e potenza rischiano di separarsi e l’oscuro destino del genio creativo oscilla fra salute e malattia. Quando, secondo Agrippa, tale processo può preludere o al sogno veritiero (somnia), o alla elevazione della contemplazione (raptus) o addirittura alla illuminazione dell’anima (furor).  E concludiamo questo breve excursus con una frase di Agrippa Spesso vediamo melanconici incolti, sciocchi, irresponsabili (come leggiamo essere stati Esiodo, Ione, Timnico Calcidiense, Omero e Lucrezio), presi improvvisamente da questo furore, e divenire grandi poeti e trovare meravigliosi e divini carmi, che essi stessi, a stento comprendono…


Per approfondimenti, cfr.:

Agrippa: Occulta Filosofia

Saxl, Panofsky, Klibansky: Saturno e la melanconia

Lanzi: Ritmi e Riti

Gombrich: Le immagini simboliche