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Numero 3



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Come nuvola sulle onde





 



 



La vita della scrittrice inglese che segnò la letteratura del Novecento fu scandita dalle crisi depressive dalle quali, però, attingeva anche nuova linfa per la sua scrittura. Nel fiume in cui si annegò cercò la leggerezza,  il sollievo finale da un dolore diventato troppo invasivo…

di Francesca Pacini

 

 

Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi, faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so... Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe... Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi

(28 marzo 1941)

 

 

Chissà se  quel giorno di marzo, quando si riempì le tasche di pietre e si annegò nel fiume Ouse, non lontano dalla sua abitazione, Virginia Woolf  pensò a quando suo padre l’aveva salvata.

Un episodio accaduto tanti anni prima. Lei era una bambina gracile, una piccola “capra” (così la chiamava la  madre) che saltellava in cerca d’affetto, lui l’aveva buttata in acqua per insegnarle a nuotare.

Virgina ebbe paura, stava per affogare.

Fu Vanessa, una volta adulte, a ricordarle quell’episodio che lei aveva evidentemente rimosso.

Aveva troppa paura dell’abbandono. 

Ma stavolta non c’era nessuna mano ad afferrarla mentre scivolava nel fondo del fiume.

E lei non era più una bambina. Era una donna che aveva deciso di interrompere la sua esistenza perché

non riusciva più a sopportare la tensione intima in cui naufragava.


La ferita di Virginia, quella che sfociò nel suicidio, aveva radici antiche. Nasceva in un contesto familiare sereno e tuttavia segnato dalle gare con i fratelli e le sorelle per accaparrarsi l’amore dei genitori.

Come tutte le bambine del mondo, amò suo padre di un amore viscerale, prepotente. 
Fu lui a trasmetterle la passione per la lettura, a educarla al gusto per quelle parole che sarebbero diventate suo rifugio e tormento.

Un'anima sensibile è sovraesposta alle intemperie.

Riservata, delicata, Virginia era cresciuta nell’adorazione del padre la cui serenità però tramontò per sempre  quando sua moglie Julia morì.

Fu l’inizio del terrore dell’abbandono, per lei.


Perderà anche suo padre, più avanti. Ma già da allora, probabilmente, conviveva con molte assenze.
Non importava chi le fosse accanto, se fosse amata o meno. 
Virginia Woolf si è sempre sentita una outsider. C’era lei, da una parte. Altrove, il resto del mondo.


Gli esseri umani non si tengono per mano per tutto il cammino della vita.
Per ognuno di noi esiste una foresta vergine; un campo di neve dove non c’è neanche l’orma di una zampa di uccello. Su questa terra viaggiamo da soli, e non vogliamo compagnia. Sarebbe intollerabile essere sempre compatiti, sempre accompagnati, sempre capiti.


Eppure non fu una vita solitaria, la sua. In molti provarono a capirla sempre, in  ogni bizzarria, ogni moto irrequieto dell’anima.


Una volta rimaste sole, il legame con la sorella Vanessa si cementò, divenne in seguito un vero sodalizio dove il sangue si mescolava all’arte: Virginia scriveva, Vanessa dipingeva.

Quando si trasferirono a Bloomsbury era impossibile non notare quelle due ragazze che si rifiutavano di vivere la condizione femminile imposta dai protocolli del vittorianesimo.

Volevano essere ebbre di vita, loro.
E fu così che man mano la loro casa divenne un luogo di incontro per intellettuali, artisti, gay. Per  chiunque avesse voglia di discutere, sperimentare, osare lo spostamento di un limite convenuto. Anni lieti, ricchi di fermenti culturali, sociali. Una condizione dello spirito, di apertura della mente, come scrive Nadia Fusini.

Ma le inquietudini di Virginia cominciavano già ad avanzare. 
E lei non si tirò indietro. Mai.


Se Vanessa era solare, Virginia era invece lunare, umbratile, notturna.

Vanessa si sposò ed ebbe tre figli. Virginia, malgrado il matrimonio con Leonard, nessuno. Solo attraverso i libri, i suoi “bambini”, come li chiamava, attenuava il senso di sterilità che ogni volta provava davanti ai prodigi del ventre fecondo di sua sorella.

L’incontro con Leonard Woolf, uomo severo, maturo, discreto, politicamente impegnato, fu certamente esaltato dalle qualità paterne che Virginia proiettò sulla sua figura. Ma a modo suo lo amò.


A modo suo, perché non sapeva accettare l’amore di un uomo. Forse a causa delle molestie sessuali subite durante l’infanzia da parte dei fratellastri, i figli del matrimonio precedente di Leslie Stephen,  che la toccavano dove non avrebbero dovuto. Forse. O forse perché semplicemente non riusciva a farsi incendiare dal fuoco che brucia la carne.  Lei rimaneva distante, frigida capretta incapace di godere insieme al marito.

Leonard lo accettò. 
Continuò ad amare quella donna tremendamente intelligente e allo stesso tempo difficile, alle prese con un’esistenza dolorosa che schierava in campo un solo nemico: lei stessa.

Le ombre di Virginia sono state chiamate con vari nomi: nevrosi, sindrome maniaco-depressiva, disturbo bipolare…

Lei si dichiarava semplicemente “pazza”. "I matti mi hanno eletta R", scrisse al marito durante un ricovero in clinica in seguito a un crollo.


Le crisi arrivavano, sostavano, se ne andavano. Ma ogni volta era una morte e resurrezione. L’appetito svaniva, precipitava nell’insonnia, passava ore a fissare il vuoto, agitata da voci interiori che le bisbigliavano chissà quali angosce.

Tutta l’opera letteraria fu segnata da questi passaggi che divennero rituali: alla fine di ogni libro Virginia si ammalava. Forse il distacco dalla sua creatura le costava troppo.


Eppure fu da quel tormento che uscirono fuori alcune delle pagine più belle della letteratura del novecento. Fu in quelle viscere di sé stessa che trovò i suoi “momenti di essere”, come recita il titolo di una raccolta dei suoi racconti.


"Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro significato di superficie, cogliamo istintivamente questo, quello e quest’altro (…)".


Si pagano cari, i “momenti di essere”. Nella creazione letteraria Virginia trovò però l’antidoto al suo male, malgrado fosse lo stesso strumento che allo stesso tempo sembrava invece scatenarne l’avvento.

Se non avesse scritto, Virginia Woolf non avrebbe trovato il modo di dare una forma alla sua malinconia esistenziale. Sì, perché se nei momenti più critici arrivava “la pazza”, quando era lucida rimaneva comunque nuda, fragile, "come d’autunno su un albero una foglia".

Lo scavo nei suoi tormenti le fece toccare profondità insospettate. Se riuscì a percepire che la vita è un alone luminoso fu perché sapeva che poteva dissolversi, ne conosceva le prospettive precarie, i tenui punti di fuga. Non aveva la stessa carnalità, la stessa consistenza che aveva per gli altri. Lieve, fugace, sottile, l’esistenza era per lei "un nastro rosa lanciato su un abisso", come scrisse nel suo diario.

Ne raccontò, nei suoi libri, le suggestioni. Gita al faro, La signora Dalloway… tutta la sua produzione letteraria risente delle atmosfere interiori di un’anima troppo gracile per tollerare il peso della materia.

Se nei suoi libri mette in scena sé stessa (c’è un po’ di Virginia ovunque), in Orlando celebra l’amore per Vita Sacksville West, la sua amante.


L’ambivalenza nei confronti della vita, e l’impossibilità di accettare questa ambivalenza nei suoi sentimenti (non riusciva infatti a tenere il bene e il male e per questo doveva distribuirli, scegliendo per sé l’assunzione del male), fa sì, probabilmente, che Virginia sfiori – sfiori, perché non la troverà mai davvero – la completezza nel rapporto sentimentale con un’altra donna.


Eppure Leonard è sempre presente. È insieme a lui che ha fondato una casa editrice, è con lui che stampano libri, loro e non, è con lui che divide i momenti fondamentali per lei, quelli legati alla scrittura.

Vita è invece tremore, passione.

Certamente la aiuta nella scoperta delle gelosie, del pensiero ripetuto verso l’essere amato, del desiderio.


Lesbica? Virginia fu bisessuale. Cercò l’androginia.

Anche se è ispirata a Vita, la vera figura di Orlando è la stessa Virginia.

Questo personaggio romanzesco che migra nei secoli, che attraversa i sessi cambiandoli come costumi di scena, non rappresenta forse la libertà auspicata in uno dei suoi saggi, forse uno dei più belli, Una stanza tutta per sé? Non è forse una delle varianti di quell’androgine di cui racconta? 
Quello necessario alla scrittura per essere piena, completa: "Una grande mente è androgina. Ed è proprio quando ha luogo questa fusione che la mente diventa pienamente fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà". Così  la vera scrittura ha una doppia natura, e Virginia prima di tutto è una scrittrice, così anche l’amore segue vie differenti che si sviluppano nelle due direzioni.


Certo, molti psicologi troveranno una serie di motivi a schiera, distribuiti come i villini, uno di fianco all’altro, per giustificare questa sua scelta. Il mai trasceso amore edipico per il padre, l’ammirazione per una madre bella, perfetta nei cui confronti lei è un brutto anatroccolo, anzi “la capra”, le molestie durante l’infanzia, la frigidità nel rapporto sessuale con il maschio, forse troppo violento, troppo “fallico”  per una donna che, per voler emulare il padre, solitamente detiene un fallo fantasma che la avvicina a quello paterno con il quale compete.

Ma a noi non interessa. 
Ci piace pensare che Virginia abbia voluto vivere Orlando in prima persona. Ci piace pensare che la figura di Vita come musa del libro sia una scusa. La vera musa è lei. È Virginia.


E ci piace pensare che la ricerca di quell’androgine abbia rappresentato la tensione verso la completezza proprio perché Virginia, condannata a restare sempre a margine della vita nella solitudine interiore che la accompagnava, si abbeverava disperatamente a ogni fonte d’amore cercando di comprendere la natura dell’uomo nelle sue sfaccettate varianti.


Nello smarrimento esistenziale di chi vive con consapevolezza la sua solitudine c’è anche la risorsa per un’esplorazione più agguerrita. La scrittura non fu mai rifugio. Semmai fu assillo. Fu navigazione, faro e cielo stellato. In mezzo, come una lama, il dolore di esistere.

"Lo scrittore – e questa è la sua diversità e il suo continuo rischio – è tremendamente esposto alla vita, scrisse in un saggio, non smette mai di ricevere impressioni più di quanto un pesce in mezzo all’oceano possa evitare che l’acqua gli entri nelle branchi"e. Il mestiere delle parole fa sì che ogni suono, ogni oggetto, ogni dettaglio vengano vissuti con intensità.


"La vita, insomma, è molto solida o molto instabile?

Sono ossessionata da questa contraddizione. Dura da sempre, durerà sempre, affonda giù fino alle radici del mondo, quest'attimo in cui vivo. Ed è anche transitorio, fuggevole, diafano.

Passerò come una nuvola sulle onde", scrisse una volta.


Se l'esistenza di Virginia è passata come una nuvola sulle onde, le sue parole si sono invece fissate sulla carta per sempre.


Sono lì, a nostra disposizione. Meravigliose parole che raccontano storie (nelle quali lei rifletteva parti di sé, che avevano il suo nome, le sue paure, i suoi desideri), si fanno inchiostro per dare corpo a riflessioni mai stupide, mai banali.


Donna intelligente, Virginia. Troppo. E fragile, fragilissima. Quando la depressione la aggrediva sbatteva le sue ali di dolore tutto intorno, come una farfalla davanti alla luce della lampada.

Ma è proprio dalla consapevolezza di questa meravigliosa, terrifica precarietà che spuntò il faro (già, il faro) luminoso che guidava la sua scrittura nei sentieri tortuosi dell'anima.

Un'anima complessa, la sua, appoggiata su una fragilità estrema in cui però lei osava guardare l'abisso profondo di sé.

Ci entrava dentro fino a soffocare, talvolta. La sensibilità si tendeva fino agli estremi dell'universo mentre la pelle respirava dolore.

Ma non fuggiva.

Si attardava in quell'abisso in cui incontrava i mostri ma attingeva anche ai tesori. 

Laggiù, dentro di sé, la vita perdeva consistenza e diventava quell'alone luminoso di cui più volte parlò.

E tuttavia senza consistenza non c'è più Terra, solidità. 
Volare o precipitare dipendono solo dalla forza di sopportare la visione di sé.


Virginia volò. E poi precipitò. Affogò. Scelse di affogare. E magari passò sulle teste degli uomini che invano la cercavano, quel giorno, nel fiume. Invisibile, finalmente libera, passò come una nuvola sulle onde.